uno sonosciuto

Prendendo a destra dalla marina grande, dopo la chiesa della Madonna delle Grazie, si arriva al limite della zona del porto. Alcune barche a vela ancorate lì da mesi e in attesa di chissà quale viaggio e di chissà quali pirati, dondolano suonando le sartie come delle arpe. L'aria è serena e calmissima. Le case riflesse nell'acqua sono madreperlacee e parafrasano un'immagine oleografica ottocentesca. Napoli. Veduta con il Vesuvio. Procida. Pescatori sulle loro barche. Veduta di Capri. Ischia. Il castello aragonese. Come degli acquerelli. Il silenzio, non assoluto, ma armonicamente scandito dai soliti rumori della vita che quietamente scorre, il martellare di Mimì il fabbro, (di lui parleremo dopo), il ciuco Caterina con il basto carico di tre o quattro specie di verdure (quelle dell'orto in questa stagione) e il suo vecchio padrone che riempie i cestini calati dagli altissimi palazzi sul mare, dai vefi, i mezzi archi a collo di giraffa che caratterizzano le costruzioni procidane. Il sole non più sgargiante, ma lucido, preciso, roseo, scalda i colori delle facciate e così i rosa e i gialli zolfo diventano quasi arancio, ed entra dai tondi rosoni che illuminano le ripidissime e bianchissime scale che portano alle abitazioni, così alte che chi vi abita sconfina a livello degli orti, in cima alla salita, e dalle finestre a volte vuote, si intravedono gli agrumeti rigogliosi dall'atra parte della casa. Proseguendo verso la punta della lingua, si attraversa la parte più brutta del luogo, un tratto di spiaggia dove stazionano i camion della spazzatura; intorno a questi, insieme all''odore di polvere e di marcio, lavatrici abbandonate, ferri arrugginiti, materassi le cui macchie immonde bagnate dall'umido della notte marina sono divenute presenze oscene e inquietanti, sedie rotte e irrecuperabili e tanti, tanti cani neri liberi e in branco che rovistano ovunque in cerca del loro tesoro. Ma oltrepassando questo pezzo di terreno, si torna sui sassi che finiscono al mare, si costeggiano gli scogli fino quasi a giungere sotto la Terra Murata, lo sperone di Santa Margherita Vecchia, dell'ex penitenziario. Una serie di piccoli scogli si protendono sul mare e l'ultimo, la vedetta direi, si erige come un braccio, con la sua croce di ferro arrugginito piantata sull'ultima roccia. Una mattina ero arrivata fin là, saltando da scoglio a scoglio per poi trovarmi in un luogo solitario e bellissimo, lambito da una chiara acqua trasparente e oltre al quale si intuisce la vicinanza dell'altra insenatura, il porto della Corricella. Come ogni mattina presto, appena arrivata mi ero immersa nell'acqua freschissima, una sorta di rito dionisiaco, dolcissimo, propiziatorio per una giornata fatta di piccoli piaceri. Al ritorno sullo scoglio, un signore dal volto serio e dolcissimo stava in piedi appoggiato alla parete dello strapiombo, guardando l'infinito. Ho detto l'infinito, non l'orizzonte, non la lontananza. La sua mezza età era corpulenta. Indossava un costume da bagno a pantaloncini di lana blu scura con una cintura bianca. A fianco, su uno scoglio e accuratamente piegati, erano i suoi abiti: grigio scuro mi sembra. Quel giorno, oltre ad accennare un lieve saluto di pura convenienza, non scambiammo nessuna parola. Il triste signore continuò a lungo a guardare l'infinito, finché, con mia sorpresa, presa una maschera e delle pinne che non avevo notato, si immerse nell'acqua, nuotando verso la profondità, e sparì dietro il prossimo orizzonte dell'ultimo scoglio. Tornata a casa ricordo di avere ripernsato, forse distrattamente, a questo signore così particolare, ma poi lo svolgersi della vita ha cancellato tutto. Dopo qualche giorno sono ritornata in quel posto. Sempre molto presto la mattina (forse le 8, forse prima), sempre il bagno freschissimo e profumato di alghe, il silenzio, e poi ecco il signore. Fermo contro lo scoglio, il costume di lana umido, appesantito da questa umidità, il corpo grigiastro, astratto, lo sguardo azzurro verso il nulla o verso il tutto, i capelli scuri lievemente ingrigiti.
-Ha lasciato lei questi sandali?- mi disse
-Sì, grazie! Li ho molto cercati! -
-Li ho seppelliti sotto le alghe in modo che nessuno potesse prenderli, finché non avessi potuto chiederle se erano effettivamente suoi.
-Grazie-
Non so come gli chiesi se fosse procidano, se anche lui amasse il mare di mattina presto, e altro. Rispose che sì, era di Procida, ma ci mancava da molto anni, che ogni mattina arrivava con il primo traghetto da Napoli, per stare lì a guardare i suoi scogli, a sentire la sua terra, a rivivere i suoi ricordi. Molto banalmente gli feci notare che, stando a Napoli, non doveva essere difficile tornare a stare a Procida, che se ne aveva così tanta nostalgia avrebbe dovuto cambiare la sua vita, seguire i suoi desideri. Con molta tristezza mi disse che questo per lui non era possibile. E basta. Tacque e non parlammo più. La sua età non più giovanissima e la sua atletica dimestichezza con il mare tornarono a meravigliarmi. Era una persona che certamente non apparteneva ad una realtà contemporanea, uno strano personaggio da dopo-guerra; gli stessi colori grigiastri da denutrizione, in un corpo invece muscoloso, di quella muscolosità da mezza età di un uomo che se l'è sempre cavata da solo nella vita. Quello che si dice un uomo capace. Ma il volto, lo sguardo smarrito e castissimo no. Quelli appartenevano ad un'altra sfera. Ho subito iniziato a fantasticare sulla sua vita. Un vedovo? Un inconsolabile uomo rifiutato dalla vita, dal successo? Un impiegato avvilito e ormai senza aspettative? Un professore in pensione? Un uomo che ha perso qualcuno, mi sembrava, oppure un uomo con un destino davvero diverso. Il costume di lana fatto a maglia, poi, si usava almeno cinquant'anni fa. E lui lo indossava tranquillamente. E la sua potenza e resistenza nel nuotare così a lungo, sparendo addirittura dal campo visivo, e la sua assoluta solitudine, la tristissima cortesia, la discrezione. Tutto sembrava molto strano. Poi non lo vidi più. La mattina non veniva più sullo scoglio. Ha finito le ferie, pensai. Passa la fine estate, passa l'inverno e arriva la Pasqua. Procida per Pasqua è trionfante di penitenze e di giubili. Un giorno mentre tornavo a casa e scendevo per il canalone. Molta gente con i pacchi della spesa, vocii, un grande senso di festa. Camminando ho alzato gli occhi e, davanti a me, vedo un uomo, lui, tutto vestito di grigio, lo sguardo azzurro serio e triste, una camicia bianca senza colletto e al collo, attaccata ad una grossa catena scura, un grande crocifisso di ferro, così grande che prendeva tutto lo spazio lasciato libero dalla giacca abbottonata. Volevo parlargli, salutarlo, ma il suo sguardo non mi ha assolutamente incoraggiato, e forse nemmeno riconosciuto. Se era un prete, era uno strano prete. Forse faceva parte di qualche setta religiosa nascosta, forse era solo votato a Dio, forse era un pazzo, ma sicuramente era straordinario. Sicuramente non l'ho dimenticato, ma lui non lo sa.