2007
napoli
17/08/07 14:42
Con ostinazione, senza contentarmi delle parole, degli appassionati ricordi, continuo a illudermi di poter trasmettere agli altri che amo, ai miei figli, le mie esperienze, attraverso odori che vorrei risuscitare, voci, colori, descrizioni che dovrebbero potere reincarnare una realtà che non voglio accettare come morta, ormai. Napoli. Scendiamo alla stazione di Margellina, so a memoria che di fronte c'è la trattoria Vini e Cucina, che sul suo tavolo sono disposti dei piatti con le zucchine in scapece, i pulpetielli alla Luciana, i supplì, piccoli sartù di riso, bombe fritte, mozzarelle succose, pomodorini piccoli e sodi, ruchetta, fiorilli fritti e quant'altro questa città riesce a esprimere come "un tutto" del il suo ineguagliabile senso estetico mai apparente, ma succoso e saporito. Come per i suoi fiori, mai soltanto belli ma sempre fortemente profumati, così la città, la sua polvere, il suo mare, il canto formoso delle donne, il nudo dei ragazzini neri di sole. Forma e sostanza, mai l'una senza l'altra, mai mediocri, mai a metà. Tutto fortissimo, tutto orribile, tutto bellissimo.
Avevo parlato a lungo a loro della luce che avremmo trovato all'arrivo a Napoli, dei rumori cantilenati che sarebbero penetrati dappertutto, come luci improvvise, degli odori forti e precisi, di quel senso di disperata felicità che questa città ti rovescia addosso, se la ami. Mi ero dilungata nella descrizione della gente, il popolo negli scuri budelli della città, rischiarati appena dai lumini accesi davanti alle madonne barocche nei loro altarini sempre vivi, o mi ero illusa di averlo fatto; la sua nobiltà generosa, squattrinata e antichissima, suntuosamente galante e pronta a tutto per mantenere la propria oziosa e inutile sopravvivenza. I palazzi ricchissimi e laceri, la vecchia madre imbalzamata ed incapace di parlare altro che in francese o nel più stretto napoletano; i venditori di tutto, ovunque, sfrontati e intelligenti, capaci di inventarsi tutto con grande abilità e di fartelo pagare quel tanto che basta per farli vivere, giorno per giorno, non scambiando mai il valore della vita con quello della sua durata. E i piccirilli, tanti, usati per losche attività delle quali non si accorgono: immane gioco della vita, quell'unico gioco, lungo i vicoli e le strade, che é loro concesso e che, anzi, devono fare. Rubare qualsiasi piccola cosa, correre via veloci, portare strani pacchetti a strane persone, infilarsi, agili e sottili (i vermicelli non gli hanno mai fatti ingrassare) attraverso piccoli pertugi per prendere non importa cosa purché appartenga ad altri. Ho parlato di loro con i miei figli, in questa visita a Napoli, e in questo modo, quasi inavvertitamente, ho parlato per metafora della mia stessa gioventù e la foga e la passione che ci ho messo mi appaiono ora come chiari e inequivocabili segni della mia rimossa coscienza di parlare di qualcosa che è finito, che non esiste più, che non saprò mai più comunicare loro nemmeno con l'amore. Qualcosa di irrimediabilmente perso. Peccato. E' solo il vivere le cose, i luoghi, le persone, che fa sì che tali luoghi, persone, cose, ti appartengano per sempre, entrino a fare parte della struttura stessa del tuo corpo, della tua anima. E questo non è possibile raccontarlo, comunicarlo, trasmetterlo per osmosi. Questa è una delle più dolorose illusioni, impotenze della vita, uno dei segni della nostra terribile incomunicabilità e, infine, della nostra implacabile, reale solitudine. Senza scampo. Quando la morte ci coglierà, il guscio della nostra esistenza si richiuderà implacabilmente, saldamente, per sempre. Ci porteremo dietro tutto, rumori, odori, canti, attese. Scompariranno, con noi, soprattutto i ricordi.
Davanti a noi si ergevano gli stessi palazzi che ricordavo, forse solo più stinti e più polverosi, accanto a questi, però, palazzine "moderne" senza alcuna storia né alcuna valenza estetica (perché Napoli è una esasperazione estetica, comunque e ancora) si sono moltiplicati con i loro colori verde pisello, marroncino, grigio topo. I balconi di queste case dovute al miracolo economico e alla corruzione della camorra, sono comunque pieni di fiori, ma qualcosa anche in questi fiori è diverso. E' solo la mia età a essere un'altra? Mi prodigo a spostare l'attenzione dei figli altrove da queste brutte costruzioni, a comportarmi da illusionista, tentare cioè di ipnotizzare la loro attenzione soltanto sui palazzi rosso pompeiano o su quelli rosei, con il balcone piccolo in ferro bianco, il basilico piantato nel secchio di ferro blu, la pagliarella per parare il sole forte e profumato, distoglierli dalle tende a righe bianche e marrò, proprio come se questa nuova realtà non esistesse, dato che davvero, io che conosco bene la città, so che le è estranea e proprio per questo per i napoletani terribilmente affascinante, quasi rappresentasse un gradino sociale più elevato, più simile a quello che si vede in televisione.meno vergognoso..
Non so se riesco nell'inganno che inconsciamente mi sono prefissa. Insisto a mescolare i miei ricordi vivaci e attraenti e ad imporli a loro, quasi come se fossero anche ricordi loro, e se fosse ancora la sola realtà esistente, ricordi da trasmettere di diritto, quasi geneticamente; insisto a sottolineare quei luoghi bellissimi e a me cari, mi ritrovo a dire:- no, questo non c'era, ma guarda aldilà, guarda come è forte e dolce questa città, guarda dietro quella porta socchiusa come é attraente quella innumerevole famiglia che sopravvive stretta e immutabile - ma so che non è più così, li sto ingannando perché voglio essere ancora giovane, bella, voglio essere quella persona che guardava Napoli così, tanti anni fa. Ma ora gli occhi dei miei figli guardano in modo diverso. Ne sono delusa e quasi ferita. Come se non apprezzassero il dono che gli sto porgendo. Guardano in realtà con occhi freschi, senza memorie, senza ricordi né stratificazioni di profumi, eventi, rumori, felicità, paure, speranze. Guardano Napoli senza la mia vita dentro. Peccato. Chissà quale sarà la loro vita, cosa di loro metteranno dentro le cose che vedranno e che vivranno, le loro "napoli", quali significati resteranno per sempre e accanitamente attaccati ai loro luoghi, ai loro profumi, alle loro gioie e chissà quale sarà la memoria tangibile che vorranno tenacemente passare ai loro figli, chissà se anche per loro tutto il vissuto sarà così forte da rimanere assolutamente impresso, come un amplesso d'amore, oppure se la realtà in cui vivono la loro giovinezza, (nella mia l'ombra della guerra e l'ombra della pace avvolgevano ancora il mondo) li farà vedere le cose intorno diversamente, forse essere meno appassionati, meno assolutamente certi di amare una cosa, una persona, una città, ma certamente più ricchi di potenzialità e di libertà, chissà se saranno capaci di cambiare, se necessario, la loro vita in un attimo, con coraggio e fermezza, se sapranno capire davvero l'oggetto della loro passione, chissà se anche loro sentiranno l'impulso assolutamente imprescindibile di comunicare questo oggetto (forse soggetto) appassionato ai loro figli, ai loro compagni di vita e se cercheranno di comunicarlo proprio nel modo in cui lo hanno amato loro e come vivamente lo ricordano, e chissà se saranno capaci, alla mia età, di illudersi di vedere ancora intatta quella realtà ormai remota, mantenere forte l'amore per quella improbabile "napoli" che è loro ancora sconosciuta, l'amore per quei rumori, voci, profumi che si saranno impastati ai loro giorni, avranno formato il profondo strato vitale del loro esserci. Chissà.
Avevo parlato a lungo a loro della luce che avremmo trovato all'arrivo a Napoli, dei rumori cantilenati che sarebbero penetrati dappertutto, come luci improvvise, degli odori forti e precisi, di quel senso di disperata felicità che questa città ti rovescia addosso, se la ami. Mi ero dilungata nella descrizione della gente, il popolo negli scuri budelli della città, rischiarati appena dai lumini accesi davanti alle madonne barocche nei loro altarini sempre vivi, o mi ero illusa di averlo fatto; la sua nobiltà generosa, squattrinata e antichissima, suntuosamente galante e pronta a tutto per mantenere la propria oziosa e inutile sopravvivenza. I palazzi ricchissimi e laceri, la vecchia madre imbalzamata ed incapace di parlare altro che in francese o nel più stretto napoletano; i venditori di tutto, ovunque, sfrontati e intelligenti, capaci di inventarsi tutto con grande abilità e di fartelo pagare quel tanto che basta per farli vivere, giorno per giorno, non scambiando mai il valore della vita con quello della sua durata. E i piccirilli, tanti, usati per losche attività delle quali non si accorgono: immane gioco della vita, quell'unico gioco, lungo i vicoli e le strade, che é loro concesso e che, anzi, devono fare. Rubare qualsiasi piccola cosa, correre via veloci, portare strani pacchetti a strane persone, infilarsi, agili e sottili (i vermicelli non gli hanno mai fatti ingrassare) attraverso piccoli pertugi per prendere non importa cosa purché appartenga ad altri. Ho parlato di loro con i miei figli, in questa visita a Napoli, e in questo modo, quasi inavvertitamente, ho parlato per metafora della mia stessa gioventù e la foga e la passione che ci ho messo mi appaiono ora come chiari e inequivocabili segni della mia rimossa coscienza di parlare di qualcosa che è finito, che non esiste più, che non saprò mai più comunicare loro nemmeno con l'amore. Qualcosa di irrimediabilmente perso. Peccato. E' solo il vivere le cose, i luoghi, le persone, che fa sì che tali luoghi, persone, cose, ti appartengano per sempre, entrino a fare parte della struttura stessa del tuo corpo, della tua anima. E questo non è possibile raccontarlo, comunicarlo, trasmetterlo per osmosi. Questa è una delle più dolorose illusioni, impotenze della vita, uno dei segni della nostra terribile incomunicabilità e, infine, della nostra implacabile, reale solitudine. Senza scampo. Quando la morte ci coglierà, il guscio della nostra esistenza si richiuderà implacabilmente, saldamente, per sempre. Ci porteremo dietro tutto, rumori, odori, canti, attese. Scompariranno, con noi, soprattutto i ricordi.
Davanti a noi si ergevano gli stessi palazzi che ricordavo, forse solo più stinti e più polverosi, accanto a questi, però, palazzine "moderne" senza alcuna storia né alcuna valenza estetica (perché Napoli è una esasperazione estetica, comunque e ancora) si sono moltiplicati con i loro colori verde pisello, marroncino, grigio topo. I balconi di queste case dovute al miracolo economico e alla corruzione della camorra, sono comunque pieni di fiori, ma qualcosa anche in questi fiori è diverso. E' solo la mia età a essere un'altra? Mi prodigo a spostare l'attenzione dei figli altrove da queste brutte costruzioni, a comportarmi da illusionista, tentare cioè di ipnotizzare la loro attenzione soltanto sui palazzi rosso pompeiano o su quelli rosei, con il balcone piccolo in ferro bianco, il basilico piantato nel secchio di ferro blu, la pagliarella per parare il sole forte e profumato, distoglierli dalle tende a righe bianche e marrò, proprio come se questa nuova realtà non esistesse, dato che davvero, io che conosco bene la città, so che le è estranea e proprio per questo per i napoletani terribilmente affascinante, quasi rappresentasse un gradino sociale più elevato, più simile a quello che si vede in televisione.meno vergognoso..
Non so se riesco nell'inganno che inconsciamente mi sono prefissa. Insisto a mescolare i miei ricordi vivaci e attraenti e ad imporli a loro, quasi come se fossero anche ricordi loro, e se fosse ancora la sola realtà esistente, ricordi da trasmettere di diritto, quasi geneticamente; insisto a sottolineare quei luoghi bellissimi e a me cari, mi ritrovo a dire:- no, questo non c'era, ma guarda aldilà, guarda come è forte e dolce questa città, guarda dietro quella porta socchiusa come é attraente quella innumerevole famiglia che sopravvive stretta e immutabile - ma so che non è più così, li sto ingannando perché voglio essere ancora giovane, bella, voglio essere quella persona che guardava Napoli così, tanti anni fa. Ma ora gli occhi dei miei figli guardano in modo diverso. Ne sono delusa e quasi ferita. Come se non apprezzassero il dono che gli sto porgendo. Guardano in realtà con occhi freschi, senza memorie, senza ricordi né stratificazioni di profumi, eventi, rumori, felicità, paure, speranze. Guardano Napoli senza la mia vita dentro. Peccato. Chissà quale sarà la loro vita, cosa di loro metteranno dentro le cose che vedranno e che vivranno, le loro "napoli", quali significati resteranno per sempre e accanitamente attaccati ai loro luoghi, ai loro profumi, alle loro gioie e chissà quale sarà la memoria tangibile che vorranno tenacemente passare ai loro figli, chissà se anche per loro tutto il vissuto sarà così forte da rimanere assolutamente impresso, come un amplesso d'amore, oppure se la realtà in cui vivono la loro giovinezza, (nella mia l'ombra della guerra e l'ombra della pace avvolgevano ancora il mondo) li farà vedere le cose intorno diversamente, forse essere meno appassionati, meno assolutamente certi di amare una cosa, una persona, una città, ma certamente più ricchi di potenzialità e di libertà, chissà se saranno capaci di cambiare, se necessario, la loro vita in un attimo, con coraggio e fermezza, se sapranno capire davvero l'oggetto della loro passione, chissà se anche loro sentiranno l'impulso assolutamente imprescindibile di comunicare questo oggetto (forse soggetto) appassionato ai loro figli, ai loro compagni di vita e se cercheranno di comunicarlo proprio nel modo in cui lo hanno amato loro e come vivamente lo ricordano, e chissà se saranno capaci, alla mia età, di illudersi di vedere ancora intatta quella realtà ormai remota, mantenere forte l'amore per quella improbabile "napoli" che è loro ancora sconosciuta, l'amore per quei rumori, voci, profumi che si saranno impastati ai loro giorni, avranno formato il profondo strato vitale del loro esserci. Chissà.
solitudine
17/08/07 14:41
Ricordo la visione della splendida terrazza su, alla terra murata, un panorama intenso ed espanso, a 380 gradi, tutto tondo fino a Napoli, Capri, Ischia, la zona flegrea, la piccola isola di Procida in un pugno, sotto di noi. La sera sta arrivando, una sera estiva e tarda, con lunghe ombre che disegnano il primo refrigerio dopo tanto sole. Il cielo si fa blu cobalto, il mare intenso e luccicante, le prime luci si accendono nei golfi che lo sguardo raggiunge da quell'altezza. Pace, bellezza, brezza, un buon vino bianco nel bicchiere, un sorriso dato più a me stessa che agli amici, un compiacimento quasi finale, come un punto di arrivo, una distensione dell'anima. Guardo intorno le case vecchie e bellissime scomposte sotto di noi. In una terrazza grigia, si apre una porta nel buio, una porta verso un nulla. Seduto su una strana seggiola un uomo non più giovane ma non ancora vecchio, rimane a lungo seduto, con le gambe rialzate da uno strano marchingegno. Guarda anche lui l'immensità intorno, forse la guarda più immobile di me, chissà se ha anche lui un'invasione di pace nell'animo. Guardo, attratta senza sapere perché, vorrei essere lì anche io. Mi rendo conto che la strana sedia è una carrozzina da disabili, ampliata per sostenere in alto delle gambe nascoste da un lenzuolo sporco, sgualcito, come quelli che coprono i corpi delle vittime degli incidenti, per le strade. L'uomo rimane immobile mentre la luce cala sempre di più. Guarda silenzioso, triste, guarda sempre laggiù, sicuramente oltre il luogo che i miei occhi, anche se sono più in alto di lui, possono arrivare a vedere, guarda oltre i suoi sogni, al di là delle sue speranze, ben oltre la sua vita stessa, verso il luogo immaginario dove tutto diviene nulla e il nulla è luce. Poi, passato del tempo, quando la luce della controra sta cedendo lo spazio al quasi buio, l'uomo gira le ruote della sua carrozzina e, faticosamente, come una sconfitta, come dopo un'attesa vana, un'altra giornata in cui tutto è rimasto uguale, come forse fa ogni sera, rientra con manovre difficili dentro la porta aperta verso il buio, si inoltra nell'antro che sembra vuoto, si lascia ingoiare dalla sua notte solitaria, angosciosa, dove forse il sonno sarà profondo come quello di un animale nella sua tana, profondo come la sua solitudine assoluta.
virgilio
17/08/07 14:40
Guardando oltre l'orizzonte, al di là della lucida acqua marina (qualche barca alla deriva, arenata ormai da anni, dondolante, carica di tempo e di nulla), mi sono accorta che la distanza che separa l'isola dalla terra ferma, da Virgilio e dalla Sibilla di Cuma, è una distanza tenue ma esatta: poprio quella che metaforicamente separa nella nostra percezione una simile bellezza da un sogno, e a sua volta questa percezione da una illusione. Tanta bellezza infatti, le luci brillanti sul confine quasi immaginario, al di là dell'acqua, la rosea nebbia che avvolge i contorni di quella terra vicinissima, immensamente lontana, della quale m'illudo di sapere tutto, da sempre, quasi fosse la mia terra, la mia storia, e della quale invece la realtà sfugge a tutti, anche a coloro che la abitano davvero, questo segreto e questa bellezza è il suo mistero: una storia bellissima oscillante tra verità e leggenda, una storia che certamente e inconsciamente è la chiave di lettura della mia venuta su quest'isola, un destino quindi che attendo che si sveli, il motivo di questa scelta radicale che non ha nessuna ragione logica, tranne quella di poter rimirare, dalla giusta lontananza, dalla giusta vicinanza, questi luoghi cosi mestamente meravigliosi, che celano dietro la nebbia e dietro l'orizzonte raggiungibile dallo sguardo, le scure acque del lago d'Averno, la piscina mirabilis, e il rifugio sotterraneo della Sibilla, a Cuma, dove prestando con attenzione e senza malizia l'orecchio, mi assicurano che ancora qualche volta si possa udire l'enigmatica e profonda voce della maga pronunciare le frasi labirintiche il cui significato si è perso nei miti, secoli di storia, nei milioni di menzogne che il linguaggio ha acquisito per poter sopravvivere e per farci sopravvivere senza paura. Sta all'uomo ascoltare se vuole e, come nel libro de i King, come nelle improbabili riprove di ogni credo, affidarsi a quel sé medesimo nascosto che contiene già tutte le verità, ma così nascoste che solo un oracolo, comunque questo si disveli attraverso il nastro della storia, potrà riportarle al livello percepibile della coscienza, a filo dell'acqua profonda e della nostra storia genetica degli uomini, farlo divenire la Rivelazione che proviene da questo limo interno e abissale.
Un giorno prenderò una barca fino a Pozzuoli; un giorno, scesa in terra ferma, intraprenderò un circoscritto ma lunghissimo viaggio alla ricerca della tomba di Virgilio, del mistero che certamente è chiuso nella povera, rovinata terra del braditismo, nascosto dalle costruzioni dei geometri, dai simboli dell'arricchimento del periodo del boom e della camorra, forse dietro le brutte insegne delle pizzerie e dei nuovi bar. Non so se sia Enea l'anti Ulisse che cerco, o un improbabile Edipo che, con un destino così grande e tragico fu pur sempre degno di ascoltare e quindi risolvere un ingannevole enigma, forse in una Tebe del tutto simile alla terra che è qui di fronte. Tutti abbiamo un Laio sulla nostra strada, abbiamo tutti, o per lo meno tutti coloro che un giorno hanno camminato per arrivare altrove, reciso i lacci soffocanti del passato prossimo. E tutti a un certo punto, certi di avere scelto una realtà nuova e adatta a noi, ci siamo accorti che questa realtà abbracciata con entusiasmo altro non era che la storia che ci stava alle spalle, camuffata. La nostra Giocasta, il nostro destino. E saremo puniti con la nostra cecità. Avremo in realtà amato troppo noi stessi.
Un giorno prenderò una barca fino a Pozzuoli; un giorno, scesa in terra ferma, intraprenderò un circoscritto ma lunghissimo viaggio alla ricerca della tomba di Virgilio, del mistero che certamente è chiuso nella povera, rovinata terra del braditismo, nascosto dalle costruzioni dei geometri, dai simboli dell'arricchimento del periodo del boom e della camorra, forse dietro le brutte insegne delle pizzerie e dei nuovi bar. Non so se sia Enea l'anti Ulisse che cerco, o un improbabile Edipo che, con un destino così grande e tragico fu pur sempre degno di ascoltare e quindi risolvere un ingannevole enigma, forse in una Tebe del tutto simile alla terra che è qui di fronte. Tutti abbiamo un Laio sulla nostra strada, abbiamo tutti, o per lo meno tutti coloro che un giorno hanno camminato per arrivare altrove, reciso i lacci soffocanti del passato prossimo. E tutti a un certo punto, certi di avere scelto una realtà nuova e adatta a noi, ci siamo accorti che questa realtà abbracciata con entusiasmo altro non era che la storia che ci stava alle spalle, camuffata. La nostra Giocasta, il nostro destino. E saremo puniti con la nostra cecità. Avremo in realtà amato troppo noi stessi.
ingegnere
17/08/07 14:39
Una strada affollata, clacson che suonano, traffico scomposto e incrostato di caldo. E' la città estiva. Ad un incrocio, un uomo dagli occhi marroni come le castagne, la pelle ambrata e le mani lunghe e bellissime, ferma le macchine e si offre di pulire i cruscotti. Tanti rifiuti, sgassate impertinenti, qualche vetro da pulire, "in fretta, dai", qualche mancia buttata là, commenti razzisti o pietisti, mai uno sguardo da essere umano a essere umano.
Dall'altro lato della strada un uomo è fermo e, rivolto verso la sua parte, "ingegnere", chiama. Un tuffo al cuore. Chi lo riconosce? Qualcuno per cui anche lui ha un nome, un titolo, una vita? Guarda verso la persona che ha chiamato, sorride, gli occhi intelligenti orgogliosi, lo sguardo dritto di chi ha dignità e sicurezza. E' un attimo. L'uomo, dall'altra parte della strada, ha trovato il "suo" ingegnere, gli sta stringendo la mano. Si era sbagliato, ormai in questa terra così straniera, così estranea, così ignara dei suoi nuovi abitanti, i vù cumprà, i pulisci vetri, e mille altri, lui, come tutti, non ha nome, è un "ei, tu", un accattone senza dignità, ipotetico ignorante extracomunitario, rubalavoro, drogato, ladro, stupratore, nessuno.
Eppure lo aveva chiamato: "Ingegnere..."proprio come lo chiamano al suo paese, perchè lui è davvero un ingegnere.
Dall'altro lato della strada un uomo è fermo e, rivolto verso la sua parte, "ingegnere", chiama. Un tuffo al cuore. Chi lo riconosce? Qualcuno per cui anche lui ha un nome, un titolo, una vita? Guarda verso la persona che ha chiamato, sorride, gli occhi intelligenti orgogliosi, lo sguardo dritto di chi ha dignità e sicurezza. E' un attimo. L'uomo, dall'altra parte della strada, ha trovato il "suo" ingegnere, gli sta stringendo la mano. Si era sbagliato, ormai in questa terra così straniera, così estranea, così ignara dei suoi nuovi abitanti, i vù cumprà, i pulisci vetri, e mille altri, lui, come tutti, non ha nome, è un "ei, tu", un accattone senza dignità, ipotetico ignorante extracomunitario, rubalavoro, drogato, ladro, stupratore, nessuno.
Eppure lo aveva chiamato: "Ingegnere..."proprio come lo chiamano al suo paese, perchè lui è davvero un ingegnere.
uno sonosciuto
17/08/07 14:38
Prendendo a destra dalla marina grande, dopo la chiesa della Madonna delle Grazie, si arriva al limite della zona del porto. Alcune barche a vela ancorate lì da mesi e in attesa di chissà quale viaggio e di chissà quali pirati, dondolano suonando le sartie come delle arpe. L'aria è serena e calmissima. Le case riflesse nell'acqua sono madreperlacee e parafrasano un'immagine oleografica ottocentesca. Napoli. Veduta con il Vesuvio. Procida. Pescatori sulle loro barche. Veduta di Capri. Ischia. Il castello aragonese. Come degli acquerelli. Il silenzio, non assoluto, ma armonicamente scandito dai soliti rumori della vita che quietamente scorre, il martellare di Mimì il fabbro, (di lui parleremo dopo), il ciuco Caterina con il basto carico di tre o quattro specie di verdure (quelle dell'orto in questa stagione) e il suo vecchio padrone che riempie i cestini calati dagli altissimi palazzi sul mare, dai vefi, i mezzi archi a collo di giraffa che caratterizzano le costruzioni procidane. Il sole non più sgargiante, ma lucido, preciso, roseo, scalda i colori delle facciate e così i rosa e i gialli zolfo diventano quasi arancio, ed entra dai tondi rosoni che illuminano le ripidissime e bianchissime scale che portano alle abitazioni, così alte che chi vi abita sconfina a livello degli orti, in cima alla salita, e dalle finestre a volte vuote, si intravedono gli agrumeti rigogliosi dall'atra parte della casa. Proseguendo verso la punta della lingua, si attraversa la parte più brutta del luogo, un tratto di spiaggia dove stazionano i camion della spazzatura; intorno a questi, insieme all''odore di polvere e di marcio, lavatrici abbandonate, ferri arrugginiti, materassi le cui macchie immonde bagnate dall'umido della notte marina sono divenute presenze oscene e inquietanti, sedie rotte e irrecuperabili e tanti, tanti cani neri liberi e in branco che rovistano ovunque in cerca del loro tesoro. Ma oltrepassando questo pezzo di terreno, si torna sui sassi che finiscono al mare, si costeggiano gli scogli fino quasi a giungere sotto la Terra Murata, lo sperone di Santa Margherita Vecchia, dell'ex penitenziario. Una serie di piccoli scogli si protendono sul mare e l'ultimo, la vedetta direi, si erige come un braccio, con la sua croce di ferro arrugginito piantata sull'ultima roccia. Una mattina ero arrivata fin là, saltando da scoglio a scoglio per poi trovarmi in un luogo solitario e bellissimo, lambito da una chiara acqua trasparente e oltre al quale si intuisce la vicinanza dell'altra insenatura, il porto della Corricella. Come ogni mattina presto, appena arrivata mi ero immersa nell'acqua freschissima, una sorta di rito dionisiaco, dolcissimo, propiziatorio per una giornata fatta di piccoli piaceri. Al ritorno sullo scoglio, un signore dal volto serio e dolcissimo stava in piedi appoggiato alla parete dello strapiombo, guardando l'infinito. Ho detto l'infinito, non l'orizzonte, non la lontananza. La sua mezza età era corpulenta. Indossava un costume da bagno a pantaloncini di lana blu scura con una cintura bianca. A fianco, su uno scoglio e accuratamente piegati, erano i suoi abiti: grigio scuro mi sembra. Quel giorno, oltre ad accennare un lieve saluto di pura convenienza, non scambiammo nessuna parola. Il triste signore continuò a lungo a guardare l'infinito, finché, con mia sorpresa, presa una maschera e delle pinne che non avevo notato, si immerse nell'acqua, nuotando verso la profondità, e sparì dietro il prossimo orizzonte dell'ultimo scoglio. Tornata a casa ricordo di avere ripernsato, forse distrattamente, a questo signore così particolare, ma poi lo svolgersi della vita ha cancellato tutto. Dopo qualche giorno sono ritornata in quel posto. Sempre molto presto la mattina (forse le 8, forse prima), sempre il bagno freschissimo e profumato di alghe, il silenzio, e poi ecco il signore. Fermo contro lo scoglio, il costume di lana umido, appesantito da questa umidità, il corpo grigiastro, astratto, lo sguardo azzurro verso il nulla o verso il tutto, i capelli scuri lievemente ingrigiti.
-Ha lasciato lei questi sandali?- mi disse
-Sì, grazie! Li ho molto cercati! -
-Li ho seppelliti sotto le alghe in modo che nessuno potesse prenderli, finché non avessi potuto chiederle se erano effettivamente suoi.
-Grazie-
Non so come gli chiesi se fosse procidano, se anche lui amasse il mare di mattina presto, e altro. Rispose che sì, era di Procida, ma ci mancava da molto anni, che ogni mattina arrivava con il primo traghetto da Napoli, per stare lì a guardare i suoi scogli, a sentire la sua terra, a rivivere i suoi ricordi. Molto banalmente gli feci notare che, stando a Napoli, non doveva essere difficile tornare a stare a Procida, che se ne aveva così tanta nostalgia avrebbe dovuto cambiare la sua vita, seguire i suoi desideri. Con molta tristezza mi disse che questo per lui non era possibile. E basta. Tacque e non parlammo più. La sua età non più giovanissima e la sua atletica dimestichezza con il mare tornarono a meravigliarmi. Era una persona che certamente non apparteneva ad una realtà contemporanea, uno strano personaggio da dopo-guerra; gli stessi colori grigiastri da denutrizione, in un corpo invece muscoloso, di quella muscolosità da mezza età di un uomo che se l'è sempre cavata da solo nella vita. Quello che si dice un uomo capace. Ma il volto, lo sguardo smarrito e castissimo no. Quelli appartenevano ad un'altra sfera. Ho subito iniziato a fantasticare sulla sua vita. Un vedovo? Un inconsolabile uomo rifiutato dalla vita, dal successo? Un impiegato avvilito e ormai senza aspettative? Un professore in pensione? Un uomo che ha perso qualcuno, mi sembrava, oppure un uomo con un destino davvero diverso. Il costume di lana fatto a maglia, poi, si usava almeno cinquant'anni fa. E lui lo indossava tranquillamente. E la sua potenza e resistenza nel nuotare così a lungo, sparendo addirittura dal campo visivo, e la sua assoluta solitudine, la tristissima cortesia, la discrezione. Tutto sembrava molto strano. Poi non lo vidi più. La mattina non veniva più sullo scoglio. Ha finito le ferie, pensai. Passa la fine estate, passa l'inverno e arriva la Pasqua. Procida per Pasqua è trionfante di penitenze e di giubili. Un giorno mentre tornavo a casa e scendevo per il canalone. Molta gente con i pacchi della spesa, vocii, un grande senso di festa. Camminando ho alzato gli occhi e, davanti a me, vedo un uomo, lui, tutto vestito di grigio, lo sguardo azzurro serio e triste, una camicia bianca senza colletto e al collo, attaccata ad una grossa catena scura, un grande crocifisso di ferro, così grande che prendeva tutto lo spazio lasciato libero dalla giacca abbottonata. Volevo parlargli, salutarlo, ma il suo sguardo non mi ha assolutamente incoraggiato, e forse nemmeno riconosciuto. Se era un prete, era uno strano prete. Forse faceva parte di qualche setta religiosa nascosta, forse era solo votato a Dio, forse era un pazzo, ma sicuramente era straordinario. Sicuramente non l'ho dimenticato, ma lui non lo sa.
-Ha lasciato lei questi sandali?- mi disse
-Sì, grazie! Li ho molto cercati! -
-Li ho seppelliti sotto le alghe in modo che nessuno potesse prenderli, finché non avessi potuto chiederle se erano effettivamente suoi.
-Grazie-
Non so come gli chiesi se fosse procidano, se anche lui amasse il mare di mattina presto, e altro. Rispose che sì, era di Procida, ma ci mancava da molto anni, che ogni mattina arrivava con il primo traghetto da Napoli, per stare lì a guardare i suoi scogli, a sentire la sua terra, a rivivere i suoi ricordi. Molto banalmente gli feci notare che, stando a Napoli, non doveva essere difficile tornare a stare a Procida, che se ne aveva così tanta nostalgia avrebbe dovuto cambiare la sua vita, seguire i suoi desideri. Con molta tristezza mi disse che questo per lui non era possibile. E basta. Tacque e non parlammo più. La sua età non più giovanissima e la sua atletica dimestichezza con il mare tornarono a meravigliarmi. Era una persona che certamente non apparteneva ad una realtà contemporanea, uno strano personaggio da dopo-guerra; gli stessi colori grigiastri da denutrizione, in un corpo invece muscoloso, di quella muscolosità da mezza età di un uomo che se l'è sempre cavata da solo nella vita. Quello che si dice un uomo capace. Ma il volto, lo sguardo smarrito e castissimo no. Quelli appartenevano ad un'altra sfera. Ho subito iniziato a fantasticare sulla sua vita. Un vedovo? Un inconsolabile uomo rifiutato dalla vita, dal successo? Un impiegato avvilito e ormai senza aspettative? Un professore in pensione? Un uomo che ha perso qualcuno, mi sembrava, oppure un uomo con un destino davvero diverso. Il costume di lana fatto a maglia, poi, si usava almeno cinquant'anni fa. E lui lo indossava tranquillamente. E la sua potenza e resistenza nel nuotare così a lungo, sparendo addirittura dal campo visivo, e la sua assoluta solitudine, la tristissima cortesia, la discrezione. Tutto sembrava molto strano. Poi non lo vidi più. La mattina non veniva più sullo scoglio. Ha finito le ferie, pensai. Passa la fine estate, passa l'inverno e arriva la Pasqua. Procida per Pasqua è trionfante di penitenze e di giubili. Un giorno mentre tornavo a casa e scendevo per il canalone. Molta gente con i pacchi della spesa, vocii, un grande senso di festa. Camminando ho alzato gli occhi e, davanti a me, vedo un uomo, lui, tutto vestito di grigio, lo sguardo azzurro serio e triste, una camicia bianca senza colletto e al collo, attaccata ad una grossa catena scura, un grande crocifisso di ferro, così grande che prendeva tutto lo spazio lasciato libero dalla giacca abbottonata. Volevo parlargli, salutarlo, ma il suo sguardo non mi ha assolutamente incoraggiato, e forse nemmeno riconosciuto. Se era un prete, era uno strano prete. Forse faceva parte di qualche setta religiosa nascosta, forse era solo votato a Dio, forse era un pazzo, ma sicuramente era straordinario. Sicuramente non l'ho dimenticato, ma lui non lo sa.
all'aeroporto
17/08/07 14:37
Un aereo sta per partire: in una sala d'attesa riservata, delle persone stanno conversando, circondate da quell'alone profumato e superfluo che solo il lusso sa dare. Vengono chiamate "fortunate", "baciate dalla vita", "beate loro", sono inutili modelli che fuggono verso una meta che nessuno raggiungerà, il cui percorso é celato nella cecità della fortuna e del suo inganno.
Fuori, tra i tanti viaggiatori che fanno la fila per il controllo dei passaporti, passa, preceduta da un odore di muffa, di pietre bagnate e di strati di sofferenza divenuta quotidianità, una donna senza età, dilatata dai digiuni, dalla quantità di pane che troppo spesso ha sostituito un cibo più articolato: chi é? piuttosto, chi era? non lo sa più, non ha più importanza, è solo una donna che vive, il suo passato sepolto sotto la cenere della rassegnazione, gli eventi della sua vita cancellati dal disinteresse del mondo intorno e dall'apatia che la pone ormai al di là di ogni identità, il suo futuro? un vuoto a perdere, una bottiglia di plastica, una scatola di cartone, la naturale scansione delle ore, dettata dalla luce solare, dalle luci al neon dell'aeroporto che si accendono la mattina e si spengono la notte, con la chiusura dei cancelli che la lascia fuori. La morte? e chissà se la morte arriverà anche per lei o se non sarà dimenticata anche da questo nobile traguardo, da questo retorico premio per i giusti e condanna per gli indifferenti. Nè la nascita né la morte né le giornate hanno realtà, solo un presente ripetitivo, così fermo da essere assolutamente magico, assoluto, fuori dal tempo e ormai fuori dalle paure, e dove la speranza non ha senso, come la banalità di una favola a lieto fine.
La donna avanza con un cumulo di stracci, cartacce e vecchie coperte accatastate su un carrello dell'aeroporto che i vigilanti fanno finta di non riconoscere e non le sequestrano: la sua casa ambulante. L'odore della donna, via via che si avvicina alle persone che aspettano in fila, diventa forte acre e quasi insopportabile: forse perché é così animalesco da ricordare a tutti la loro primordiale innocenza?
Un sentore che non ha niente da spartire con l'alone profumato della saletta dei vip, nessuna gradazione li assembla, nessuna possibilità di chiamarli entrambi aromi, e nessuno dei due lo é: uno, primordiale, somma di essenze corporali ormai sedimentate sulla pelle dura, incrostata, screpolata, è l'esasperazione della metamorfosi naturale, degli autunni con le sue foglie marce, della scia con cui la morte stessa trascina via ogni vivente. L'altro, un camuffamento sintetico, una sovrapposizione stereotipa e costosa che esprime una quotidianità prevedibile e prefabbricata, una storia di apparenza e di stupida ricerca di felicità, come una sovrapposizione al sé che assolva il compito di coprire ogni personale sapore della pelle, della vita, come se fosse una vergogna esistere come esseri umani, mortali, uno strato di fiori indossato come una barriera per non essere mai assimilati nemmeno come "genere" alla donna senza nome e senza storia.
Ma alla donna senza storia non appartiene la vecchiaia e nemmeno la morte e questo fa di lei una persona libera, di nuovo innocente, piena di una sua particolare grazia, senza paura, quella paura per la quale gli altri, i "beati loro", ricoprono i loro escrementi con essenze esotiche al fine di dimenticare la loro ossessione, la loro imminente vecchiaia, la loro morte sicura.
Passando attraverso la coda di persone che aspettano il proprio turno, la donna senza età e senza paura, con il suo ingombrante carrello, con il suo ingombrante odore, sorridente chiede scusa e, se qualcuno si scansa per evitarla stringendo la borsetta più forte fra le mani, la donna raccatta questo gesto come una cicca per terra, come un dono, come una gentilezza fatta a lei e, lei sola fra tutti, dice - grazie - e se ne va verso il suo sempre.
Fuori, tra i tanti viaggiatori che fanno la fila per il controllo dei passaporti, passa, preceduta da un odore di muffa, di pietre bagnate e di strati di sofferenza divenuta quotidianità, una donna senza età, dilatata dai digiuni, dalla quantità di pane che troppo spesso ha sostituito un cibo più articolato: chi é? piuttosto, chi era? non lo sa più, non ha più importanza, è solo una donna che vive, il suo passato sepolto sotto la cenere della rassegnazione, gli eventi della sua vita cancellati dal disinteresse del mondo intorno e dall'apatia che la pone ormai al di là di ogni identità, il suo futuro? un vuoto a perdere, una bottiglia di plastica, una scatola di cartone, la naturale scansione delle ore, dettata dalla luce solare, dalle luci al neon dell'aeroporto che si accendono la mattina e si spengono la notte, con la chiusura dei cancelli che la lascia fuori. La morte? e chissà se la morte arriverà anche per lei o se non sarà dimenticata anche da questo nobile traguardo, da questo retorico premio per i giusti e condanna per gli indifferenti. Nè la nascita né la morte né le giornate hanno realtà, solo un presente ripetitivo, così fermo da essere assolutamente magico, assoluto, fuori dal tempo e ormai fuori dalle paure, e dove la speranza non ha senso, come la banalità di una favola a lieto fine.
La donna avanza con un cumulo di stracci, cartacce e vecchie coperte accatastate su un carrello dell'aeroporto che i vigilanti fanno finta di non riconoscere e non le sequestrano: la sua casa ambulante. L'odore della donna, via via che si avvicina alle persone che aspettano in fila, diventa forte acre e quasi insopportabile: forse perché é così animalesco da ricordare a tutti la loro primordiale innocenza?
Un sentore che non ha niente da spartire con l'alone profumato della saletta dei vip, nessuna gradazione li assembla, nessuna possibilità di chiamarli entrambi aromi, e nessuno dei due lo é: uno, primordiale, somma di essenze corporali ormai sedimentate sulla pelle dura, incrostata, screpolata, è l'esasperazione della metamorfosi naturale, degli autunni con le sue foglie marce, della scia con cui la morte stessa trascina via ogni vivente. L'altro, un camuffamento sintetico, una sovrapposizione stereotipa e costosa che esprime una quotidianità prevedibile e prefabbricata, una storia di apparenza e di stupida ricerca di felicità, come una sovrapposizione al sé che assolva il compito di coprire ogni personale sapore della pelle, della vita, come se fosse una vergogna esistere come esseri umani, mortali, uno strato di fiori indossato come una barriera per non essere mai assimilati nemmeno come "genere" alla donna senza nome e senza storia.
Ma alla donna senza storia non appartiene la vecchiaia e nemmeno la morte e questo fa di lei una persona libera, di nuovo innocente, piena di una sua particolare grazia, senza paura, quella paura per la quale gli altri, i "beati loro", ricoprono i loro escrementi con essenze esotiche al fine di dimenticare la loro ossessione, la loro imminente vecchiaia, la loro morte sicura.
Passando attraverso la coda di persone che aspettano il proprio turno, la donna senza età e senza paura, con il suo ingombrante carrello, con il suo ingombrante odore, sorridente chiede scusa e, se qualcuno si scansa per evitarla stringendo la borsetta più forte fra le mani, la donna raccatta questo gesto come una cicca per terra, come un dono, come una gentilezza fatta a lei e, lei sola fra tutti, dice - grazie - e se ne va verso il suo sempre.
sirena
17/08/07 14:33
Ogni sera alle sei e mezzo circa, tornava a casa. Durante il solito tragitto dall'ufficio a via Garibaldi 6, si fermava a comprare il giornale, mezzo filone di pane, mezzo litro di latte, mezzo chilo di mele, due uova e un cesto di insalata, ma un cesto piccolo perché era solo a mangiare.
Era mercoledì; un giorno qualsiasi ma con l'aggravante di essere nel mezzo della settimana, né all'inizio né vicino alla sospirata domenica, alla festa consumata a riposare, a rimettere a posto le due stanze che abitava, sempre con l'intervallo della telefonata alla madre rimasta al paese (come stai? che tempo fa? allora ciao e mi raccomando quello che sai), tre minuti appena a metà costo festivo.
Era mercoledì, appunto. Si sentiva abbastanza bene, non faceva troppo freddo e le strade erano appena inumidite dalla nebbia novembrina. Le luci dei pochi negozi abituali sembravano fioche ed i passanti erano rari e raccolti in sé.
Dal giornalaio una grande civetta reclamizzava una nuova rivista di viaggi, viaggi di sogno, viaggi per tutti, per ricchi e per poveri, per giovani e per meno giovani, per coppie o per singoli. Viaggi alla portata e alla misura di ognuno. La rivista, gli disse il giornalaio, era venduta a un costo promozionale.- La vuole?-
Uscì con quel lieve peso in più sotto il braccio, un pò emozionato e impaziente di potersi sedere sulla poltrona nell'angolo a sfogliare quelle immagini di promesse, dopo aver adempiuto ai domestici riti quotidiani. Girò la chiave nella toppa, una, due, tre mandate.
Una volta in casa accese l'interruttore della luce, si tolse il cappotto, si cambiò le scarpe, sfece i pacchetti e ripose le provviste nel frigorifero. Nel piccolo bagno aprì il rubinetto sul lavandino crettato, si lavò le mani con la saponetta verde acido che gli lasciava sempre addosso un odore di disinfettante, quindi, certo di non aver omesso niente di ciò che da cinquant'anni gli veniva amorevolmente imposto di fare, si sedette, tirò un grande sospiro di soddisfazione e si mise a sfogliare la sua rivista. Le prime pagine erano piene di pubblicità: piscine gigantesche ai bordi di giardini pettinatissimi ed esuberanti, la marca di una birra bevuta freddissima sulla riva del mare, alcune seggiole da giardino pesanti e complicate, ombrelloni di paglia sfrangiata, olii abbronzanti che promettevano una pelle color cioccolato e, via via che le pubblicità si esaurivano, finalmente ecco delle immagini di città: Vienna, le sue costruzioni settecentesche, il suo parco nel cuore stesso della città, i suoi caffé dai quali sembrava uscire la musica di un trio femminile (Strauss?); Venezia specchiata nell'opacità della sua laguna, le chiese levantine di zucchero, i ristoranti dai nomi per lui strani, e ancora delle maschere di cartapesta. Continuò così, tra l'ammirazione e la noia, forse lievemente deluso: si era aspettato molto di più da quella trasgressione, dal piccolo lusso di quell'acquisto non previsto nel suo bilancio.
Ora gli occhi gli si chiudevano quasi, un torpore senza desideri e senza speranze lo avvolgeva tutto, quasi proteggendolo da impossibili sogni di avventure. Allora, dentro la sua mente "vide" ciò che forse si era aspettato di trovare nelle pagine lasciate aperte sulle ginocchia: si trovava all'improvviso in una piccola città bianca; qualche costruzione spagnoleggiante ed aguzza si stagliava contro un cielo estremamente blu. Camminava felice nelle piccole stradine; bancarelle colorate esponevano la loro miracolosa mercanzia: "pescado", questo invito era un canto: "pescado, buscate, buscate"; all'angolo, proprio accanto ad un piccolo caffé con dei tavolini nella strada, una giovane donna bruna dagli occhi brucianti era ferma ad attendere qualcuno.
Le rondini, bassissime, scandivano con i loro gridi la sera in arrivo. Lunghe ombre azzurre proseguivano l'architettura neogotica delle case bianche, la ingigantivano e la allungavano sulle strade, ammorbidendola sugli scalini bianchi e gonfi di calce, deformandone le linee rette, quasi che un Gaudì si stesse divertendo a reinventarla. "Pescado, buscate, buscate".
In fondo, una piazzetta ombrosa: alberi che la sera rendeva più che mai profumati offrivano alla vista e al tatto fiori vellutati e grandi, miracoli che la mattina dopo sarebbero scomparsi, per riapparire ancora e ancora tutto l'anno nel fresco meritato del tramonto. Si incamminò verso la luce rossastra e netta che lo attendeva in fondo: un orizzonte di acqua viva e lucida, un odore di iodio e di alghe, il fruscio delle rare onde che si abbandonavano languidamente sulla riva, ritmicamente come un lungo amplesso, ancora e ancora. Ancorate a delle boe azzurre, alcune barche di legno, decorate con colori sfacciati e bellissimi, si dondolavano, invitanti. Una soprattutto lo colpì, sulla fiancata vi era disegnata una sirena, una figura opulenta di donna con la sua lunga coda argentata di pesce, gli ingenui colori del rosa, del giallo e del celeste la rivestivano di serenità. Due scalini semisommersi nell'acqua, scivolosi, rendevano possibile salirci sopra. "Sirena", era scritto a poppa. Più tardi ci sarebbe andato e forse ci sarebbe rimasto a lungo. Per sempre?
Il suono dei suoi passi gli sembrò per un attimo raddoppiato. Si voltò senza alcuna paura; l'incognito, in quella dimensione immaginaria, gli sembrava straordinario. Dietro di lui, languida e sorridente, la donna dagli occhi di brace camminava con il ritmo dei suoi stessi passi, un duetto scandito nel silenzio e nei profumi dell'aria. Non se ne meravigliò. Non aveva forse sempre dovuto scancellare proprio questo sogno?
Piano piano riaprì gli occhi; intorno a lui la stanza era semibuia, il frigorifero faceva il solito rumore, ora sì, ora no, e così da sempre. Si alzò con il cuore che batteva ancora forte, ma senza nostalgia per il sogno appena fatto. Automaticammente, nonostante fosse tardi per uscire, andò verso la porta di ingresso e l'aprì. Non si voltò indietro per chiudere con le solite tre mandate a chiave. Scese le scale tranquillo e finalmente bellissimo. Aprì il portoncino scrostato e si lasciò alle spalle l'ingresso buio e umido. Fuori, la luce intensa e blu della sera lo avvolse tutto. Respirò il profumo dei grandi fiori notturni, scese lentamente i tre gradini lambiti dall'acqua marina, scavalcò la fiancata di legno della Sirena (che odorava ancora del sole che l'aveva scaldata durante tutto il giorno), godette del dondolio morbido e silenzioso delle onde lievi contro la barca, tese la mano alla ragazza dagli occhi di brace. Si sedettero accanto. Con calma e sapienza sciolse il nodo della cima che tratteneva la barca alla sua boa colorata, mise i remi negli scalmi, sorrise, sorrise, sorrise ed infine ridendo prese il largo con la ragazza.
a silvia
17/08/07 14:33
-..Silvia rimembri ancora.., - udii.
Passavo di là per caso; uno strano posto nella città vecchia invaso da forti odori di spezie e di polvere.
- Senta, - disse l'uomo toccandomi appena, - cerca qualcosa?
Rimanemmo accanto a lungo; la luce calava e la sera era ormai peciosa e densa. Forse era tarda estate.
- Se Leopardi...allora Joyce non poteva che scrivere l'Ulisse. -
Entrati in un caffé, un grande specchio inclinato rifletté le nostre figure rendendole quasi grottesche.
- A cosa pensa?.. -
- Silvia rimembri ancora.. cos'è il ricordo? -
Fuori ora pioveva ed era notte. Un cane, abbaiando, scandì il silenzio che ci avvolse quando ci separammo.
D'un tratto, ormai lontani l'uno dall'altra, l'uomo si voltò e con voce alta perché potessi udirlo disse: - Lei si chiama Silvia, vero? -
- Sì, - risposi.
E' stata la mia bugia più bella.
Passavo di là per caso; uno strano posto nella città vecchia invaso da forti odori di spezie e di polvere.
- Senta, - disse l'uomo toccandomi appena, - cerca qualcosa?
Rimanemmo accanto a lungo; la luce calava e la sera era ormai peciosa e densa. Forse era tarda estate.
- Se Leopardi...allora Joyce non poteva che scrivere l'Ulisse. -
Entrati in un caffé, un grande specchio inclinato rifletté le nostre figure rendendole quasi grottesche.
- A cosa pensa?.. -
- Silvia rimembri ancora.. cos'è il ricordo? -
Fuori ora pioveva ed era notte. Un cane, abbaiando, scandì il silenzio che ci avvolse quando ci separammo.
D'un tratto, ormai lontani l'uno dall'altra, l'uomo si voltò e con voce alta perché potessi udirlo disse: - Lei si chiama Silvia, vero? -
- Sì, - risposi.
E' stata la mia bugia più bella.