all'aeroporto

Un aereo sta per partire: in una sala d'attesa riservata, delle persone stanno conversando, circondate da quell'alone profumato e superfluo che solo il lusso sa dare. Vengono chiamate "fortunate", "baciate dalla vita", "beate loro", sono inutili modelli che fuggono verso una meta che nessuno raggiungerà, il cui percorso é celato nella cecità della fortuna e del suo inganno.
Fuori, tra i tanti viaggiatori che fanno la fila per il controllo dei passaporti, passa, preceduta da un odore di muffa, di pietre bagnate e di strati di sofferenza divenuta quotidianità, una donna senza età, dilatata dai digiuni, dalla quantità di pane che troppo spesso ha sostituito un cibo più articolato: chi é? piuttosto, chi era? non lo sa più, non ha più importanza, è solo una donna che vive, il suo passato sepolto sotto la cenere della rassegnazione, gli eventi della sua vita cancellati dal disinteresse del mondo intorno e dall'apatia che la pone ormai al di là di ogni identità, il suo futuro? un vuoto a perdere, una bottiglia di plastica, una scatola di cartone, la naturale scansione delle ore, dettata dalla luce solare, dalle luci al neon dell'aeroporto che si accendono la mattina e si spengono la notte, con la chiusura dei cancelli che la lascia fuori. La morte? e chissà se la morte arriverà anche per lei o se non sarà dimenticata anche da questo nobile traguardo, da questo retorico premio per i giusti e condanna per gli indifferenti. Nè la nascita né la morte né le giornate hanno realtà, solo un presente ripetitivo, così fermo da essere assolutamente magico, assoluto, fuori dal tempo e ormai fuori dalle paure, e dove la speranza non ha senso, come la banalità di una favola a lieto fine.
La donna avanza con un cumulo di stracci, cartacce e vecchie coperte accatastate su un carrello dell'aeroporto che i vigilanti fanno finta di non riconoscere e non le sequestrano: la sua casa ambulante. L'odore della donna, via via che si avvicina alle persone che aspettano in fila, diventa forte acre e quasi insopportabile: forse perché é così animalesco da ricordare a tutti la loro primordiale innocenza?
Un sentore che non ha niente da spartire con l'alone profumato della saletta dei vip, nessuna gradazione li assembla, nessuna possibilità di chiamarli entrambi aromi, e nessuno dei due lo é: uno, primordiale, somma di essenze corporali ormai sedimentate sulla pelle dura, incrostata, screpolata, è l'esasperazione della metamorfosi naturale, degli autunni con le sue foglie marce, della scia con cui la morte stessa trascina via ogni vivente. L'altro, un camuffamento sintetico, una sovrapposizione stereotipa e costosa che esprime una quotidianità prevedibile e prefabbricata, una storia di apparenza e di stupida ricerca di felicità, come una sovrapposizione al sé che assolva il compito di coprire ogni personale sapore della pelle, della vita, come se fosse una vergogna esistere come esseri umani, mortali, uno strato di fiori indossato come una barriera per non essere mai assimilati nemmeno come "genere" alla donna senza nome e senza storia.
Ma alla donna senza storia non appartiene la vecchiaia e nemmeno la morte e questo fa di lei una persona libera, di nuovo innocente, piena di una sua particolare grazia, senza paura, quella paura per la quale gli altri, i "beati loro", ricoprono i loro escrementi con essenze esotiche al fine di dimenticare la loro ossessione, la loro imminente vecchiaia, la loro morte sicura.
Passando attraverso la coda di persone che aspettano il proprio turno, la donna senza età e senza paura, con il suo ingombrante carrello, con il suo ingombrante odore, sorridente chiede scusa e, se qualcuno si scansa per evitarla stringendo la borsetta più forte fra le mani, la donna raccatta questo gesto come una cicca per terra, come un dono, come una gentilezza fatta a lei e, lei sola fra tutti, dice - grazie - e se ne va verso il suo sempre.