una provocazione

Parto dalla decontestualizzazione dell'oggetto nell'arte video dove il lavoro dell'artista è il contenuto e non il supporto, per azzardare a ipotizzare un percorso dove l'opera d'arte, nel corso del futuro prossimo, sia per destino pensata per scomparire, come gli esseri animati, la vegetazione, persino la pietra e il mare. Accettare che si consumi con il tempo, anche secolare, significa porre l'arte al centro della vita, perché la vita scorre ed è solo la morte ad essere immobile e eterna. Ipotizzo un'arte che sia testimoniata dal suo progetto originario che ne permetterà la replica sempre autentica e unica. I musei diventerebbero così i luoghi della memoria, i contenitori delle tracce decifrabili che l'umanità scrive per disvelare la bellezza del proprio tempo, quei segni che per convenzione chiamiamo arte, e sarebbero soprattutto archivi della documentazione della nostra storia culturale e non più le teche preziose che contengono anche opere il cui valore culturale è spesso sorpassato da quello economico. Di questa realtà, dettata anche dall'affollamento di una produzione irrefrenabile, l'arte concettuale e i progetti in situ annunciano già negli anni recenti il teorema che ora l'arte del 2000 conferma: gli artisti non progettano più le loro opere per collocarle nei mausolei come oggetti inamovibili, protette da intemperie e preservate dal diventare "rottami", ma lavorano proprio sul concetto del riciclo inteso come rinnovo di idee (Picasso, Burri,Raushenberg, Tinguelly, Kienholz, Arman fino aHirst, Daniel Spoerri, Tadeusz Kantor ed altri hanno già lavorato sul "resto", sullo scarto industriale e biologico in tutte le sue forme), come recupero delle e rinascita dalle scorie, come rinnovo della produzione, attivazione di un mercato di scambio che serva anche all'economia.
Siamo nell'era dell'iperconsumo, gli oggetti di uso sono prodotti in modo da essere velocemente superati da altri e in modo che non valga la pena di accomodarli nel caso di rottura, gli artigiani come i ciabattini, le sarte, i fontanieri e altro stanno cedendo il posto a operai specializzati delle industrie elettroniche che producono continuamente nuovi modelli di ogni utensile diventato per induzione indispensabile, e ogni aggiornamento sarà sempre più a buon prezzo. È la politica del superfluo, contraddittoria rispetto alle rivendicazioni della sinistra del '900, è la politica radicata nell'illusoria equazione: maggiore consumo = maggiore ricchezza. L'arte non può tirarsi fuori da questa svolta irreversibile della società dei consumi rifugiandosi nella sterile critica del cambiamento in atto. L'arte non può rimanere l'icona, l'oggetto sacro da venerare e da imbalsamare ma deve avere, come l'uomo, la dignità di esistere e anche quella di finire. La maggior parte delle opere d'arte di oggi sono mobili, realizzate con materiali deperibili e nella consapevolezza che non verranno esposte nei cosiddetti luoghi a questo deputati ma in ambiti polivalenti che, piuttosto che dagli addetti ai lavori, saranno visitati forse da chi non conosce l'arte, da chi si muove non per cultura ma per curiosità. E queste opere sono progettate e dedicate anche a questi fruitori occasionali. L'artista è quindi cosciente che certi suoi lavori verranno distrutti e la materia prima riciclata, sa anche però che la loro permanenza nella storia permarrà nel progetto: l'anima, il germe dell'opera d'arte stessa.
Nel giardino della casa di Daniel Buren, in un paesino vicino a Parigi, si trova un grande capannone. Un giorno, ospite di Daniel e Chantal, ne ho oltrepassato la soglia e mi sono trovata dinanzi a cataste immense di rottami, legni a strisce di tanti colori, materiali vari con i quali Daniel ha prodotto nel tempo le sue magnifiche opere in situ. Avrei voluto prenderne un pezzetto, rubarlo come un tesoro, avere almeno un frammento di un'opera che mi aveva riempito di emozione. Erano rottami dei lavori che a un pubblico abituato a visitare i musei tradizionali, avevano suscitato il sacro rispetto dell'icona. Di quelle opere ora rimangono i preziosi e rigorosi progetti, perfetti per riprodurre l'opera virtualmente ovunque. La sostanza, la materia e anche i suoi colori sono divenuti scarti. Questo è un aspetto importante di molte opere d'arte della nostra epoca.
Tra l'altro esiste da tempo il problema del restauro delle opere del tardo novecento, quelle dell'arte povera. Quasi tutte sono state realizzate con materiali effimeri, paglia, carta, vetro, animali vivi, carbone, fascine di rami secchi, ricami, fiamme ossidriche, impossibile perciò il loro recupero dopo il naturale declino e impensabile clonarle. Occorre quindi accettarne la durata nel tempo come un elemento fondante del loro stesso esistere. A Firenze avevano progettato di sostituire con una copia il Perseo che taglia la testa alla medusa. diBenvenuto Cellini, affinché le intemperie non sciupassero questo capolavoro. Ma il Cellini ha progettato la sua scultura per quel luogo preciso e senza porsi il problema se l'alternarsi delle stagioni l'avrebbe potuta deteriorare: la ha realizzata dandole, e qui è la sua bellezza, la dignità di esistere nel respiro della vita e quindi anche di venire, da questo ritmo, distrutta. Non voglio più mausolei, macro strutture immobili e ingombranti, monumenti di artisti architetti che contengono monumenti di artisti visivi, code monumentali di visitatori per partecipare ai monumentali e mondanissimi vernissage. Voglio che l'arte respiri, si offra alla magia dello sguardo con la sorpresa e la meraviglia che sempre tutto ciò che può finire ci dà. La video arte è stata anticipatrice della riduzione del significato di proprietà e di appartenenza e da questa pratica nasce la mia provocazione.
Deleuze sosteneva che agire sulla sottrazione è più importante che amplificare le cose, i concetti. Contrastare la società che fagocita tutto, ma che è creata e ricreata da ognuno di noi ogni giorno per saziare la nostra frenesia di vivere di più, più veloci e in meno tempo, è un'utopia.  L'arte fa parte della vita quotidiana, si evolve o si devolve con noi, l'epoca della sublimazione è davvero finita, ma questo non toglie che le opere d'arte del nostro tempo siano davvero sublimi e inducano all'incanto e al disincanto, forse proprio perchè non destinate alla permanenza nella storia al di là del tempo immaginabile per 'una' vita.
Parlando di "recupero", non ho di proposito citatoDuchamp perché, pur essendo il precursore dell'importante processo di designificazione del percorso artistico dal '900, non ha mantenuto il significato semantico dell'oggetto estrapolato, nel suo "ready made",  ma lo ha sublimato, decontestualizzandolo. Ha preso infatti degli oggetti consueti per porli altrove (nel museo), li ha tolti dalla convenzione banale dell'accezione comune per mostrarne un'altra bellezza, ha cambiato solo il punto di vista togliendo il valore di uso dell'oggetto e trasformandolo in "altro" (Marcel Broodtaers diceva:da Duchamp in poi l'artista è l'autore di una definizione che si va a sostituire a quella propria dell'oggetto che ha scelto). Con la partita a scacchi giocata con l'alter ego Rrose Sélavy o nella cabala del grande vetro La Mariée mise à nu par ses célibataires, meme, sul quale ha lavorato per 13 anni e nel quale l'involontaria rottura occorsa durante un trasporto dell'opera diviene parte della stessa (inizio della valorizzazione della rottamazione), o ancora nel piccolo foro della serratura di una porta che permette alla curiosità del visitatore di spiare oltre,  Duchamp sviluppa una concezione fondata sempre più su una elaborazione mentale che lo porta a spostarsi progressivamente dall'arte visiva fino ad arrivare all'arte concettuale. Credo che l'artista oggi si muova diversamente, usi la storia come punto di partenza per effettuare poi un percorso che riflette la vita metropolitana del poprio presente e non cerchi di restituire nessun'estetica ai rottami, concetto pur sempre privilegiato e quindi borghese, ma che accetti la non estetica per quello che è, senza esorcizzarla con magie, rispettando la desolazione di quello che le città vivono oggi, consapevole che l'arte non dove abbellire ma insegnare ad amare la realtà, a vederne un'altra bellezza, quella più nascosta e indicare che del degrado la vergogna non è di chi lo vive ma di chi lo induce. Duchamp ha lavorato invece dall'alto della sua straordinaria intuizione, da un privilegio che oggi non potrebbe esistere, da gran signore, il suo urinatoio diventa persino elegante e nessuno ci farebbe pipì.
È solo Il concetto borghese che esorcizza e nasconde la malattia, la vecchiaia e la morte, che indica il residuo come vergognoso e la periferia come il luogo desolato, limitrofo di una centralità per antonomasia "bella ". L'artista oggi sa che deve ridare dignità a questa periferia, a questo limite che oltrepassa il concetto di bellezza prefabbricata, perché riconosce il naturale degrado delle cose nel degrado del corpo di tutti. Occorre imparare a non pensare all'opera d'arte come a un patrimonio stabile per diritto, che  sopravviva nei secoli preservata da quegli oltraggi che invece offendono e umiliano continuamente le persone umane, imbalsamata perché resista oltre il passaggio naturale delle cose viventi. L'artista oggi,  più che di arricchire un museo con la sua opera, lavora per ridare dignità all'essere umano, per indicargli quella libertà che gli permetta di godere della bellezza della vita e quindi della bellezza dell'arte, lavora quindi per rendere l'uomo consapevole di essere parte di tutta la bellezza del mondo. Ma non bisogna vergognarsi del brutto: perchè il rifiuto è spesso davvero sublime rispetto alla squallida perfezione esteriore cui la società tutta tende...

la santa

Improvvisamente sono stata invasa da un'immagine persistente: su un piccolo letto una donna morta, una santa, è soffusa di un pallore che la rende simile ai gigli in decomposizione, il suo volto cereo si trasforma nella mia percezione in un dipinto di Jacques Louis David,  la sua assoluta verginità esprime l'apoteosi del godimento estremo nel sacrificio, una sensualità aberrante, dolciastra avvicina la sua immagine iconografica alla sfera del surrealismo, l'estrema perfezione mortale rende l'iconografia onirica, medianica che emana un profumo già inscritto nella memoria di tutti.
La peccaminosa innocenza della sua carne sublimata, la vittoria annullata dalla morte da santa nel suo donarsi per fede, la avvicina al quadro dedicato alla morte di Marat dove, come sempre nelle opere  di David, si evince dall'abbandono del corpo la rinuncia alla vita intesa come movimento. 
E' una esecuzione di morte rappresentata dall'immobile pesantezza, ricerca dell'immediata eternità celata nel  sorriso ormai eternato sulla tela e nella dannata e beata mostruosità della perfezione.
E' la passione dei santi, quella degli amanti nell'acme dell'orgasmo, il fuoco che rende gelidi e impenetrabili, un anelito estremo: il martirio.
Il trionfo della mortificazione della vita diventa vittoria assoluta, una risoluzione marmorea che rende la realtà rappresentata un simbolo di bellezza terrificante, intoccabile, estatico, una perfezione dell'immaginario.
La santità percepita come estrema sensualità, attraente e ripugnante come un insetto sotto vetro, la vocazione sacrificale vissuta come riscatto e insieme perversione terrena, l'estrema bellezza, struggente  e intoccabile, dei volti dipinti da David, rendono lo sguardo dello spettatore un peccato di invidia.

i ricchi

I "ricchi" sono soprattutto una mentalità, un atteggiamento, un dovere sociale, un privilegio e un'aberrazione, una conquista, un vuoto d'aria colmo di oggetti, un menù, una simulazione, una meta, una realtà che non nasce da un sogno ma spesso da un sopruso, una disuguaglianza, una esibizione, un plagio, un'emulazione di superiorità, un vanto, un'abbondanza, un "troppo", un'amnesia, una svista della società, una cecità, una mutazione genetica, un virus, un batterio in evoluzione. Nel passato il surplus era destinato al mantenimento dei beni reali ed a produrne altri, materiali e spirituali, in genere relativi alla terra, al lavoro, alla ricerca estetica e al mantenimento e abbellimento delle abitazioni, al mecenatismo nell'architettura e nelle arti tutte, alla produzione della bellezza: con il tempo e la presunzione dell'ignoranza dilagante, questo valore si è tramutato in un batterio che si è evoluto in modo esponenziale, come un grande tumore: i "ricchi" sono ormai i veri "worms" che attaccano e metabolizzano tutto quello che trovano: non potendo conservare nel tempo i loro averi perché non ricordano più il loro passato da tramandare, comprano, nel loro percorrere il mondo, tutto quello che incontrano di incontaminato e di "altrui", credono così di crearsi qualcosa da cui ricominciare, una storia nuova segnata dal potere del denaro, la cui immagine invece perseguiterà i loro figli e i loro nipoti, senza accorgersi che la loro ingordigia si auto-consuma e si auto- riproduce continuamente, azzerando all'infinito i valori preesistenti a loro sconosciuti, il loro è un consumo senza residui, i ricchi sono senza posteri: la loro non é più una cultura tramandabile, non essendo esemplare. Credono di sfuggire alla banalità che invece creano al solo loro passaggio seminando ovunque il batterio della mutazione negativa, il raro "bello" rimasto deve, per essere percepito come desiderabile e acquistabile, divenire l' immagine vorace del lusso che comunque, come la condanna di Creso, tramuta tutto, anche le cose in sé preziose, in residui inutili e di pessimo gusto.
Dove passano, i "ricchi" non lasciano niente di non mietuto, di non comprato, di non ristrutturato, con una velocità degna della comunicazione di oggi, distruggono la storia con una sorta di innocenza ebete, senza esserne coscienti e senza avere la capacità culturale di crearne una con dei nuovi valori, i "ricchi" si fidano solo di loro stessi o degli amici simili a loro, solo delle persone in cui si riconoscono e raramente mettono nelle mani di veri artisti e veri architetti il loro denaro per trasformarlo in bellezza presente e futura, i "ricchi", tranne quelli rari "illuminati", comprano il bello e lo rendono irreparabilmente brutto perché solo esponibile, mostrabile, valutabile, i "ricchi" credono di essere cosmopoliti perché si spostano nel mondo continuamente, mescolando tutte le culture che incontrano, da turisti o da uomini d'affari, così che le loro case diventano case marocchine in Grecia, montanare a Procida e sempre e comunque esibizioni dei tanti viaggi fatti, del loro potere e della loro illusione che il denaro li renda davvero padroni del mondo: scambiano la nobiltà della semplicità con il "rustico", la raffinatezza con l'opulenza e così il rigore povero del mediterraneo diventa una baita o un arabesco da sultani, i puff si sprecano, gli yacht sfrecciano accanto ai pescherecci sempre più rari, le candele sono sempre più grandi per creare un'atmosfera raffinata, in realtà tutto diviene la vetrina di un negozio, della loro show room, della loro vittoria, tutto é uguale, tutto é uguale negli ormai ugualissimi luoghi del mondo che conta..
Questo batterio ancora mutante non ha antidoti: spostarsi un po' più in là per scansarlo é effimero, i "ricchi" ci raggiungeranno, leggeranno il raffinato gesto di riduzione effettuato nello scegliere il "meno", come un gesto alla moda, un "must", e accorreranno uno ad uno per esserci anche loro, per portare la loro presunzione senza limiti, senza spessore, senza cultura. Non sapendo più meritare la loro nuova ricchezza per renderla esemplare e non avendo saputo conservare quella immensa della cultura semplice e popolare che li ha preceduti, ora si affannano a copiarsi l'un l'altro, in una gara indirizzata a sperperare la loro imbarazzante opulenza, (ma il loro denaro non si consuma come quello dei poveri e subito si riproduce, moltiplicandosi in modo esponenziale, come una metastasi), i "ricchi" devono ormai essere evidentemente ricchi, riconoscibilmente ricchi, un po' più ricchi di tutti gli altri ricchi, e così i rari luoghi legati a secoli di vita dedicata a lavori antichi e nobilissimi come la pesca, l'agricoltura, l'artigianato, o i ghetti dei diseredati rimasti intatti nel tempo, diventano soggetti ambitissimi di esproprio e ne verranno cancellate per sempre le irripetibili tracce storiche per essere consegnati al futuro ridisegnati da restauri e da abbellimenti alla moda, da un nulla architettonico senza memoria, senza presente e senza futuro, ma che sarà comunque visibilmente, riconoscibilmente costoso. Le persone che abitavano i meravigliosi luoghi legati alla tradizione rinnovata quotidianamente dallo scorrere della loro vita, a loro volta (plagiati dai trenta denari dell'ignobile baratto), inizieranno il percorso per divenire i nuovi "ricchi" e volutamente, con orgoglio e ignoranza cancelleranno dalle loro nuove case tutti i segni della inconscia e straordinaria bellezza nella quale da secoli avevano vissuto felici, e la loro discendenza immemore emulerà ormai i nuovi modelli. Questo accade anche con il cibo, i "ricchi" si nutrono sempre più di prodotti poveri che pagano carissimi, e le persone incamminate verso il nuovo ceto "benestante" cercano ciò che non hanno avuto prima, la raffinatezza venefica dei cibi dei "signori": l'esibizione delle grandi marche.
Andare un po' più in là, errare come i nomadi con le sole tre cose necessarie alla vita in un sacco di tela, tre cose necessarie e belle, così belle da non essere ormai più riconosciute e invidiate da nessuno. Questa é la sola salvezza. Ne avremo il tempo e la forza? O la vita ci schiaccerà nella nostra piccola oasi di bellezza e di essenzialità, ci circonderà fino a soffocarci con oggetti dorati o di abusato e mal compreso minimalismo? E se ci spostiamo, se riusciamo ad andare sempre un po' più in là, un po' più nella residua semplicità, quanto tempo passerà perché la notizia che esiste "un altrove" da invadere, da occupare, da comprare raggiunga l'orda di questi batteri, e quanto tempo ci sarà rimasto prima che questo "worm" ci raggiunga ancora e sempre, angelo sterminatore, e ci derubi, con l'entusiasmo storico del colonizzatore?

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quasi come noi

Ricominciare. O forse solo cominciare. Ogni giorno, ogni ora. In palazzi antichi e cadenti nel cuore oscuro della città o in una periferia senza storia, quella periferia appena costruita ma già fatiscente, piena di gente che affolla case di un colore improbabile per un'improbabile vita senza importanza e quasi senza nome. Le case affittate ai neri. Nati altrove, cresciuti in fretta e gettati in un mondo senza conoscerne i meccanismi, senza avere strumenti né progetti se non quello della pura sopravvivenza, allenati ormai a dimenticare tutto, anche il proprio nome e a cambiarlo perchè possa essere pronunciato e riconosciuto anche lontano. Pronti a dimenticare le persone amate per non soffrire ancora nel ricordarle. La loro é una storia inesistente e ininfluente, inutile anche se segretamente eroica. La pelle scura, il marchio contro cui combattere a ogni respiro, il sospetto di tutti addosso come unica carta di riconoscimento. - I neri, saranno stati i neri. Sembra che il ladro avesse la pelle scura. Pare che lo stupratore fosse un extra comunitario, nel buio ho visto un uomo la cui pelle sembrava nera.. ma nel buio tutta la pelle sembra nera. - L'uomo nero. C'era anche un gioco per bambini con questo nome. La donna nera? a letto va bene, se l'atto sessuale è protetto, a letto é brava e non parla, non chiede, scopa e basta. E costa poco.
Il cibo? la puzza si sente in tutta la strada quando cucinano, ma che ci mettono, i vermi?
Tamil é uno di questi. Ha attraversato miglia e miglia di mare per arrivare in Italia, l'ITALIA, la salvezza, il lavoro, il cibo, la libertà, sì l'Italia. Al porto dove il barcone attracca, alcuni "caporali" smistano i naufraghi: voi da questa parte, gli altri invece se ne tornano via subito, rimpatriati (quale patria?) ehi tu dove vai? Non capisci la nostra lingua? credi di essere un signore e che tutti possano capire il tuo dialetto, zulù? Qui siamo colti, siamo latini, mica africani..cammina
L'hangar dei rifugiati é uno spazio molto grande con tantissime brande in fila con sopra a ognuna una coperta piegata, tante persone smarrite che non si capiscono nemmeno tra loro. La nuova Babele. Tamil cerca con gli occhi i compagni del suo viaggio. Dove gli hanno mandati? Accanto a lui un vecchio piegato in due piange silenziosamente, troppo tardi lo hanno sradicato da se stesso e sicuramente non ce la farà. Accanto a lui triste come un'orfana una cassetta colma di collanine di plastica E' la speranza nella nuova vita futura e quello che rimane del sua vita di sempre, la fonte dei soldi che avrebbe guadagnato e spedito a casa. Non ce la farà, nessuno comprerà le sue collanine: altri mille uomini simili a lui vendono ovunque collanine come le sue e questi mille uomini sono giovani e corrono sulle spiagge, ridono e piacciono alle donne di mezza età. Lui non corre e non ride, lui non piace più. Lui piange fin da ora, ed è appena sbarcato. Cerca un bambino, un piccolo nipote che è venuto con lui da lontano. La folla intorno é confusionaria, urlante, eccitata. La polizia smista ancora le persone smarrite cercando di dare una branda a ognuno. Tamil si siede accanto al vecchio, gli prende la mano scarna e sporca di viaggio.
-Si troverà, vedrai, -
Un caldo appiccicoso quasi come quello del loro paese sta addosso a tutti e a tutto, magliette sudate e odore di animali in gabbia. le latrine in fondo (solo 3 per tutta quella gente) con le porte lasciate aperte emanano un odore insopportabile. Qualcuno piscia direttamente sul muro la birra appena ingurgitata . Sono stanchi e come svuotati, è la fine della loro vigilia, il calo dell'adrenalina del dopo. E non sembra esserci nemmeno la festa promessa. Saranno tenuti in quarantena a lungo? Un cancello di ferro li separa dal mondo sognato e chissà quando si aprirà.
Il volto di Tamil é bellissimo, la pelle tesa come di raso, gli occhi grandi e scuri sembrano scolorarsi e sfumare il loro marrone anche intorno alla pupilla. Le lunghe mani nere dal palmo rosato si muovono nell'aria suonandola come uno strumento. Chi se ne accorgerà? tanta bellezza così senza sguardi? Forse nemmeno lui che sopravvive solo con la sua immagine interiore, senza specchi né conferme, senza accorgersi di sé, senza più la madre che lo aduli.
E' una persona civile, gentile, buona. E' "quasi come noi".
Nella tasca dei jeans ha i suoi fogli di riconoscimento, tutto a posto, ha anche 50 euro per ricominciare. La sua sicurezza. Ma bisogna aspettare, non si sa cosa, ma aspettare. Per poi andare in Germania? Fermarsi in Italia? Dove lo porterà la vita. E dove vorrà Allah. E' uno strano fatalismo, come un'ancora di salvezza, dare la responsabilità sempre al Dio di tutti, senza caricarsi di aspettative. Se Allah vorrà, come Allah vorrà, quando Allah vorrà.
Intanto scende la prima notte nel grande spazio odoroso di abbandono. Il vecchio ora si stringe al nipote che ha ritrovato. Dal cancello entra una luce lunare fredda che crea delle ombre dalla prospettiva obliqua. Il sonno pesante delle tante persone riempie il silenzio di rumori vari, respiri pesanti, lamenti inconsapevoli e sogni, tanti sogni, chissà quali sogni. La grande stanza ne é piena, si possono quasi toccare, tante vite parallele che si intrecciano le une con le altre senza interagire tra loro. Uno strano intreccio, questo. L'indomani l'oblio ingoierà ogni illusione vissuta nell'inconscio notturno, ogni persona amata scomparirà di nuovo, ognuno sarà ancora solo nella sua realtà così incerta.
In mano una tazza di ferro con del caffè, sul tavolo un bricco con del latte e del pane. Tanta fame arretrata. Una fila per fare la doccia, togliersi la storia dell'esodo dalla pelle, l'asciugamano sulla spalla, lo spazzolino da denti in mano, un rumore strascicato di infradito sul pavimento fradicio e scivoloso. Dopo, uno ad uno, tutti saranno presentabili.
Fuori. Cosa vuol dire fuori? Uno é fuori da qualcosa che conosce, fuori in qualche luogo che conosce, ma loro d'un tratto sono "fuori" e basta. In una strada qualsiasi che porta in nessuno e in tutti i luoghi, aperta da quattro lati, da giocarsi ai dadi. Nessuno, tranne Tamil, vuole fare gruppo con il vecchio e il nipote, troppi problemi dalle due età, una troppo avanzata e quella del piccolo troppo precoce per l'incognito da affrontare.
-andiamo- e si incamminano in tre.
Alcuni camion sono fermi in una piazzola desolata. I "padroncini" al bar a mangiare i loro panini e a bere la prima birra.
Trovare un passaggio non é difficile, soprattutto se non si sa per dove.
A Napoli, vi lascio a Napoli, salite. La strada sarà lunga.

Eppoi a Napoli tutta quella tolleranza, oppure tutta quella intolleranza, dipende se il vigile ha sofferto o no nella sua vita, se si sente forte della sua divisa o se é un essere ancora umano.
Eppoi Rosaria la portinaia del grande palazzo cadente che, cuore di mamma, gli ha fatto mettere in una stanzetta i tre giacigli per passare le notti con il vecchio amico e il suo nipote. E ancora Rosaria con la pasta fritta cresciuta, il dono domenicale per essere tutti fratelli, e il grande portone che lo protegge alle spalle quando la finanza passa a sequestrare la merce senza dare in cambio niente con cui sopravvivere, la corsa con l'immenso fagotto pieno di borse, cinture, tutte quelle marche esibite, quelle cose inutili ma uguali, uguali agli oggetti milionari, agli oggetti del desiderio, e l'ingordigia delle donne, voglio quella voglio quella, vuitton vuitton.. proprio uguale. La droga rimane solo la droga, quella si vende sicuro.
Nessuno gli aveva detto com'era davvero la terra promessa, quel paradiso perseguito con la fuga anche a costo della sua stessa dignità, della sua stessa vita, ma cominciava a convincersi che non ci fossero altre vie per esistere. Aveva fatto un lungo viaggio per vendere nella polvere del marciapiede, ai piedi dei passanti, delle borse false. Per questo aveva barattato la sua vita. Questa la meta dell'eroe.

Quando piove l'acqua bagna anche lui, il seggiolino pieghevole che é la sua casa diurna diventa inservibile, la merce deve essere chiusa in fretta nel fagotto perchè non si rovini, c'é un padrone alle spalle, uno che controlla e che alla sera si prende quasi tutti i soldi. Quando il sole scotta non c'è l'ombra di nessun albero ma solo quella delle auto in doppia fila che é un'ombra polverosa e mutevole e che non protegge nessuno. E la merce si sciupa anche al sole.
- Se si sciupa la paghi tu -
Sullo stesso marciapiede un banchetto che nessun vigile perseguiterà: sul piano pieghevole, tutte in fila, tante collanine colorate, in attesa di essere acquistate. E un vecchio nero che aspetta paziente.
Ignari delle proposte di legge che forse li allontanerà o forse darà loro esilio, ignari di cosa sia la vita oltre il loro spazio così piccolo e così precario, padroni solo della loro immobile attesa, i fuggiaschi, gli esuli, i rifugiati, gli speranzosi, i coraggiosi, i venditori di paccottiglie, i vù cumprà, gli spacciatori, i neri, aspettano che alla fine passi anche questo. Per non soffrire si sono dimenticati del loro passato e per non illudersi non si aspettano nessun futuro. Aspettano che passi anche la loro vita. Come vuole Allah, se vuole Allah, quando vuole Allah.








assalto, assalto

Una strada di un paese dell’est, un “dopoguerra”, un’ora tra l’ultima luce e il primo buio. Un bambino sta giocando con dei soldatini ricavati da stecchi di legno: assalto! assalto!
Un lieve vento fa oscillare la lampada che dovrebbe illuminare la strada deserta, la luce si altalena avanti e indietro allungando e accorciando le ombre che si riversano sul marciapiede, è una sensazione di solitudine e di lieve paura.
I rumori nel silenzio dell’ora mediana si fanno rari ma importanti, una pentola smossa, un cane che abbaia, una voce di richiamo per la prossima cena, in lontananza la monotonia di una radio accesa.
Le scarpe di Lazzaro sono scucite e consunte, i suoi piedini scuri di polvere e di sole appaiono dalla punta ormai aperta, se piove non saranno riparati dall’acqua. Le sue manine agitate dalla foga del gioco/vita muovono i soldatini immaginari in una battaglia dove la vittoria è scontata, il nemico sconfitto, l’eroe trionferà, la giustizia si fa strada, la speranza si accende.
Nella sua casa, dove fa ritorno dopo il richiamo della fame, nessun eroe può mai vincere, nessuna giustizia accompagna le giornate scure di fame e di povertà, nessuna speranza nemmeno nel pallido sorriso della madre. Un “dopoguerra” qualunque, prima di una improbabile ripresa delle attività comuni, i negozi chiusi alle sei del pomeriggio mostrano pochissima merce, il pane, qualche mela, del formaggio di capra, ma c’è anche un piccolissimo fioraio, all'angolo della strada, che con le sue margherite riesce a dare l’illusione che la poesia non sia del tutto soffocata dal nulla che è rimasto dopo i bombardamenti. Se qualcuno compra quelle margherite? Non saprei dire, non ho mai visto nessuno fermarsi e uscire dal negozio con un mazzo di fiori, ma questi sono come un ciuffo di colore messo sul tavolo, una luce nella strada grigia e forse nessuno vuole davvero venderli, ma solo guardarli e far sorridere.
Dal gioco alla realtà: due strade dietro la casa di Lazzaro un gruppo di ragazzi sta preparandosi per un raid punitivo verso la casa del leader attuale, responsabile o no dello sfacelo intorno, ma sicuramente rappresentante della classe dirigente che ha permesso al paese di perdere tutto. “Assalto, assalto”, i soldatini questa volta sono ragazzi veri, nessun eroe uscirà vincente, nessuna risoluzione al problema ormai immobile del paese, ci sarà violenza e distruzione, ancora distruzione, ci sarà chi morirà senza memoria e senza essere ricordato, morirà così quasi inutilmente come tutti i ragazzi che si sono gettati nella loro fine con la grande speranza di fare un passo avanti. Moriranno e basta e solo i loro genitori continueranno oltre la loro stessa vita a piangerli e a chiamarli eroi.
Ma Lazzaro non lo sa. Il gioco della sua guerra ha ancora il sapore della fantasia, i buoni vincono sui cattivi, nessuno si fa veramente male e chi viene ucciso si rialza subito per ricominciare un altro gioco. Ancora qualche anno, poi anche Lazzaro vorrà una maggiore giustizia, una speranza di vita e, due strade più in la di quella dove le ombre della sera si allungano e si accorciano per la lampada che oscilla al vento, andrà incontro al suo inutile eroismo, andrà contro l’assurdo potere dei pochi per dare una speranza di vita. “Assalto, assalto” dirà, e forse sarà la sua ultima parola.



perché le ricette di cucina...

ho capito che a un certo punto della vita il modo migliore, il più silenzioso e diretto, di dare amore agli altri é cucinare: quindi le mie ricette sono come delle dediche che magari come tali riconosco solo io.

una nostalgia gentica

quando, passando con un treno vedo, all'imbrunire, delle case sfilare velocemente nel paesaggio che attraverso, delle anonime case con le finestre appena illuminate da una luce interna, immediatamente, anche e soprattutto davanti a case qualunque assolutamente non speciali, sento in me come una forte nostalgia per non averle mai o non ancora abitate, non esserci all'interno anche io, una nostalgia per qualcosa che non ho mai vissuto, per delle emozioni che, dal di fuori e correndo via con il mio treno, mi sembrano straordinarie e irrinunciabili. Forse tutto questo fa parte di una memoria genetica, di un già vissuto, o forse di un desiderio forte di essere "tutti".

sole invernale

stamani sono andata sul molo, ho camminato assorta nel godimento del tempo e dello spazio che mi sono presa tutto per me, poi mi sono seduta in fondo in fondo, dove c'é il faro tinto di minio rosso, il sole era tiepido, il mare profumatissimo, calmo e incantava il mondo intorno con la ritmica cantilena delle onde sugli scogli, accanto le barche a vela, tutte ferme per la stagione invernale, le sartie tintinnanti. Non so quanto tempo sono rimasta così a pensare a tutto e a niente. Poi sono arrivati due pescatori, le lunghe canne sulle spalle, un sacchetto dove forse metteranno i pesci, sicuramente pieno della loro vanitosa speranza di prenderne. Hanno cominciato a ridere, a comunicare a cenni e a parole, a scambiarsi un sodalizio molto speciale, a condividere per quello spazio di tempo la loro vita. Solo allora e d'un tratto mi sono accorta di essere sola.

Munda, nlla luce che declina

..quando Munda mi diceva "tu sei buona", questa frase assumeva per me una sorta di maestosità, quella maestosità alla quale solo una perfetta innocenza dona un valore assoluto, una corona regale.
tu sei buona.
dopo mesi senza vederla le rimanevo accanto delle intere giornate, in tranquillità, il suo silenzio sorridente ed il mio, quieto accanto a lei.
"non sono di compagnia" si scusava, "sono sempre seduta qui e non ho molte cose da raccontare"
ma quel silenzio era dolcissimo e riusciva a ridimensionarmi, a farmi immergere in una chiara realtà di pace, quella pace interiore che raramente mi pervade e che cancellava anche la fretta che sempre accompagna la mia vita, quel precorrere le cose per poi farne altre.
ero immersa in un tempo lungo, con la luce del giorno che calava lentamente, piano, un accompagnamento naturale verso il momento dei saluti; l'ultima volta, senza saperlo, verso l'addio definitivo.
la grande età, in persone molto speciali, riesce a ricomporre la vera scansione della vita, delle giornate vissute una ad una, forse perché sempre simili tra loro, forse perché l'attesa sparisce dalle componenti del tempo per rimanere solo spazio che si dissolve dolcemente ed il cui cambiamento é solo nel declinare della luce, piano, piano verso il buio.
tu sei buona.
grazie mummy.

a tutto tondo

arriva un certo punto, in là nel percorso della vita, in cui con grande meraviglia e direi giorno per giorno, accade di rivedere in sé stessi, somaticamente e profondamente, i tratti e gli atteggiamenti delle persone che ci hanno preceduti e che amiamo: abbiamo creduto da sempre di essere diversi da ognuno della nostra famiglia, lo abbiamo ribadito, dimostrato come una bandiera individuale, capace di farci prendere quella necessaria distanza che sola ci ha permesso di crescere nella nostra individualità, quasi sempre reale, a tratti presunta.
Ora, piano piano, accade che le mie mani si muovano, si modifichino e ricordino quelle di mio padre, il mio volto si spogli dalle espressioni forti che nascevano dal profondo orgoglio della giovinezza, e divenga più nudo, più puro, senza presunzione di bellezza, almeno quel genere di bellezza ormai divenuto o ridicolo o inutile, e lasci ora trasparire le mie origini nordiche, l'espressione innocente di mia madre. Una somma di persone, una genealogia che appare evidente, quasi una visione dell'aspetto che avranno anche i miei figli, un lontano giorno: ora so che ci saremo dentro tutti, tutto il grande numero di persone che hanno partecipato al labirinto genetico che li ha formati esattamente così come sono, e che solo così potevano essere. Questa strana e inattesa metamorfosi mi lascia perplessa, felice, mi fa sentire non più una persona così singolare da essere anche sola, ma il frutto sempre miracoloso di tante piante che mi hanno formato: ora so che ero prevedibile.

allo specchio

Fino ai miei primi tre anni di vita non ricordo di avere conosciuto il mio volto se non per l'intuizione che i tratti somatici trasferiscono al profondo dell'io, la loro coincidenza assoluta con la personalità di ognuno. A volte sfioravo, nel buio, il mio viso di bambina, afferrando con le mani i miei lunghi capelli lisci come per proteggermi dalla notte. Un giorno, senza la presenza attenta della signorina che si occupava di noi, montata su una seggiola, mi sono trovata davanti uno specchio tondo, la cornice verde pisello adatta alla camera "delle bambine". Per la prima volta mi sono riconosciuta, ho intravisto in quel breve lampo la rivelazione di un volto unico, amico, il mio, il volto della mia vita, il volto/me, con lo sguardo triste, curioso, dove c'era già tutta la mia esistenza, le mie età future, c'era Maria Gloria tutta intera, la stessa che attraverso gli anni, ogni giorno, vedo nello specchio del mio bagno, poche le differenze e non essenziali, la mia storia era già trascritta nell'espressione e nelle tracce del mio volto, il coraggio e le debolezze, la trasparenza dell'anima che, da fanciulla, non conosce ancora alcuna opacità e, destino fatale, nel mio volto di bambina c'erano già volti dei miei figli, la promessa della loro venuta. Un'apparizione fugace, il tempo di un breve sguardo, un intravedermi che non dimenticherò, é stato il disvelamento, l'appropriazione di me tutta intera, del mio aspetto che fino allora avevo solo intuito, il mio essere unica, le qualità, i percorsi di una vita così complessa, è stato riconoscermi/conoscermi e come conoscere nel profondo la storia di tutta la mia esistenza: in quella fugace immagine, nello svelamento narcisistico e fatale che era ed è il me/persona, c'era perfino la mia morte.

napoli

Con ostinazione, senza contentarmi delle parole, degli appassionati ricordi, continuo a illudermi di poter trasmettere agli altri che amo, ai miei figli, le mie esperienze, attraverso odori che vorrei risuscitare, voci, colori, descrizioni che dovrebbero potere reincarnare una realtà che non voglio accettare come morta, ormai. Napoli. Scendiamo alla stazione di Margellina, so a memoria che di fronte c'è la trattoria Vini e Cucina, che sul suo tavolo sono disposti dei piatti con le zucchine in scapece, i pulpetielli alla Luciana, i supplì, piccoli sartù di riso, bombe fritte, mozzarelle succose, pomodorini piccoli e sodi, ruchetta, fiorilli fritti e quant'altro questa città riesce a esprimere come "un tutto" del il suo ineguagliabile senso estetico mai apparente, ma succoso e saporito. Come per i suoi fiori, mai soltanto belli ma sempre fortemente profumati, così la città, la sua polvere, il suo mare, il canto formoso delle donne, il nudo dei ragazzini neri di sole. Forma e sostanza, mai l'una senza l'altra, mai mediocri, mai a metà. Tutto fortissimo, tutto orribile, tutto bellissimo.
Avevo parlato a lungo a loro della luce che avremmo trovato all'arrivo a Napoli, dei rumori cantilenati che sarebbero penetrati dappertutto, come luci improvvise, degli odori forti e precisi, di quel senso di disperata felicità che questa città ti rovescia addosso, se la ami. Mi ero dilungata nella descrizione della gente, il popolo negli scuri budelli della città, rischiarati appena dai lumini accesi davanti alle madonne barocche nei loro altarini sempre vivi, o mi ero illusa di averlo fatto; la sua nobiltà generosa, squattrinata e antichissima, suntuosamente galante e pronta a tutto per mantenere la propria oziosa e inutile sopravvivenza. I palazzi ricchissimi e laceri, la vecchia madre imbalzamata ed incapace di parlare altro che in francese o nel più stretto napoletano; i venditori di tutto, ovunque, sfrontati e intelligenti, capaci di inventarsi tutto con grande abilità e di fartelo pagare quel tanto che basta per farli vivere, giorno per giorno, non scambiando mai il valore della vita con quello della sua durata. E i piccirilli, tanti, usati per losche attività delle quali non si accorgono: immane gioco della vita, quell'unico gioco, lungo i vicoli e le strade, che é loro concesso e che, anzi, devono fare. Rubare qualsiasi piccola cosa, correre via veloci, portare strani pacchetti a strane persone, infilarsi, agili e sottili (i vermicelli non gli hanno mai fatti ingrassare) attraverso piccoli pertugi per prendere non importa cosa purché appartenga ad altri. Ho parlato di loro con i miei figli, in questa visita a Napoli, e in questo modo, quasi inavvertitamente, ho parlato per metafora della mia stessa gioventù e la foga e la passione che ci ho messo mi appaiono ora come chiari e inequivocabili segni della mia rimossa coscienza di parlare di qualcosa che è finito, che non esiste più, che non saprò mai più comunicare loro nemmeno con l'amore. Qualcosa di irrimediabilmente perso. Peccato. E' solo il vivere le cose, i luoghi, le persone, che fa sì che tali luoghi, persone, cose, ti appartengano per sempre, entrino a fare parte della struttura stessa del tuo corpo, della tua anima. E questo non è possibile raccontarlo, comunicarlo, trasmetterlo per osmosi. Questa è una delle più dolorose illusioni, impotenze della vita, uno dei segni della nostra terribile incomunicabilità e, infine, della nostra implacabile, reale solitudine. Senza scampo. Quando la morte ci coglierà, il guscio della nostra esistenza si richiuderà implacabilmente, saldamente, per sempre. Ci porteremo dietro tutto, rumori, odori, canti, attese. Scompariranno, con noi, soprattutto i ricordi.
Davanti a noi si ergevano gli stessi palazzi che ricordavo, forse solo più stinti e più polverosi, accanto a questi, però, palazzine "moderne" senza alcuna storia né alcuna valenza estetica (perché Napoli è una esasperazione estetica, comunque e ancora) si sono moltiplicati con i loro colori verde pisello, marroncino, grigio topo. I balconi di queste case dovute al miracolo economico e alla corruzione della camorra, sono comunque pieni di fiori, ma qualcosa anche in questi fiori è diverso. E' solo la mia età a essere un'altra? Mi prodigo a spostare l'attenzione dei figli altrove da queste brutte costruzioni, a comportarmi da illusionista, tentare cioè di ipnotizzare la loro attenzione soltanto sui palazzi rosso pompeiano o su quelli rosei, con il balcone piccolo in ferro bianco, il basilico piantato nel secchio di ferro blu, la pagliarella per parare il sole forte e profumato, distoglierli dalle tende a righe bianche e marrò, proprio come se questa nuova realtà non esistesse, dato che davvero, io che conosco bene la città, so che le è estranea e proprio per questo per i napoletani terribilmente affascinante, quasi rappresentasse un gradino sociale più elevato, più simile a quello che si vede in televisione.meno vergognoso..
Non so se riesco nell'inganno che inconsciamente mi sono prefissa. Insisto a mescolare i miei ricordi vivaci e attraenti e ad imporli a loro, quasi come se fossero anche ricordi loro, e se fosse ancora la sola realtà esistente, ricordi da trasmettere di diritto, quasi geneticamente; insisto a sottolineare quei luoghi bellissimi e a me cari, mi ritrovo a dire:- no, questo non c'era, ma guarda aldilà, guarda come è forte e dolce questa città, guarda dietro quella porta socchiusa come é attraente quella innumerevole famiglia che sopravvive stretta e immutabile - ma so che non è più così, li sto ingannando perché voglio essere ancora giovane, bella, voglio essere quella persona che guardava Napoli così, tanti anni fa. Ma ora gli occhi dei miei figli guardano in modo diverso. Ne sono delusa e quasi ferita. Come se non apprezzassero il dono che gli sto porgendo. Guardano in realtà con occhi freschi, senza memorie, senza ricordi né stratificazioni di profumi, eventi, rumori, felicità, paure, speranze. Guardano Napoli senza la mia vita dentro. Peccato. Chissà quale sarà la loro vita, cosa di loro metteranno dentro le cose che vedranno e che vivranno, le loro "napoli", quali significati resteranno per sempre e accanitamente attaccati ai loro luoghi, ai loro profumi, alle loro gioie e chissà quale sarà la memoria tangibile che vorranno tenacemente passare ai loro figli, chissà se anche per loro tutto il vissuto sarà così forte da rimanere assolutamente impresso, come un amplesso d'amore, oppure se la realtà in cui vivono la loro giovinezza, (nella mia l'ombra della guerra e l'ombra della pace avvolgevano ancora il mondo) li farà vedere le cose intorno diversamente, forse essere meno appassionati, meno assolutamente certi di amare una cosa, una persona, una città, ma certamente più ricchi di potenzialità e di libertà, chissà se saranno capaci di cambiare, se necessario, la loro vita in un attimo, con coraggio e fermezza, se sapranno capire davvero l'oggetto della loro passione, chissà se anche loro sentiranno l'impulso assolutamente imprescindibile di comunicare questo oggetto (forse soggetto) appassionato ai loro figli, ai loro compagni di vita e se cercheranno di comunicarlo proprio nel modo in cui lo hanno amato loro e come vivamente lo ricordano, e chissà se saranno capaci, alla mia età, di illudersi di vedere ancora intatta quella realtà ormai remota, mantenere forte l'amore per quella improbabile "napoli" che è loro ancora sconosciuta, l'amore per quei rumori, voci, profumi che si saranno impastati ai loro giorni, avranno formato il profondo strato vitale del loro esserci. Chissà.

solitudine

Ricordo la visione della splendida terrazza su, alla terra murata, un panorama intenso ed espanso, a 380 gradi, tutto tondo fino a Napoli, Capri, Ischia, la zona flegrea, la piccola isola di Procida in un pugno, sotto di noi. La sera sta arrivando, una sera estiva e tarda, con lunghe ombre che disegnano il primo refrigerio dopo tanto sole. Il cielo si fa blu cobalto, il mare intenso e luccicante, le prime luci si accendono nei golfi che lo sguardo raggiunge da quell'altezza. Pace, bellezza, brezza, un buon vino bianco nel bicchiere, un sorriso dato più a me stessa che agli amici, un compiacimento quasi finale, come un punto di arrivo, una distensione dell'anima. Guardo intorno le case vecchie e bellissime scomposte sotto di noi. In una terrazza grigia, si apre una porta nel buio, una porta verso un nulla. Seduto su una strana seggiola un uomo non più giovane ma non ancora vecchio, rimane a lungo seduto, con le gambe rialzate da uno strano marchingegno. Guarda anche lui l'immensità intorno, forse la guarda più immobile di me, chissà se ha anche lui un'invasione di pace nell'animo. Guardo, attratta senza sapere perché, vorrei essere lì anche io. Mi rendo conto che la strana sedia è una carrozzina da disabili, ampliata per sostenere in alto delle gambe nascoste da un lenzuolo sporco, sgualcito, come quelli che coprono i corpi delle vittime degli incidenti, per le strade. L'uomo rimane immobile mentre la luce cala sempre di più. Guarda silenzioso, triste, guarda sempre laggiù, sicuramente oltre il luogo che i miei occhi, anche se sono più in alto di lui, possono arrivare a vedere, guarda oltre i suoi sogni, al di là delle sue speranze, ben oltre la sua vita stessa, verso il luogo immaginario dove tutto diviene nulla e il nulla è luce. Poi, passato del tempo, quando la luce della controra sta cedendo lo spazio al quasi buio, l'uomo gira le ruote della sua carrozzina e, faticosamente, come una sconfitta, come dopo un'attesa vana, un'altra giornata in cui tutto è rimasto uguale, come forse fa ogni sera, rientra con manovre difficili dentro la porta aperta verso il buio, si inoltra nell'antro che sembra vuoto, si lascia ingoiare dalla sua notte solitaria, angosciosa, dove forse il sonno sarà profondo come quello di un animale nella sua tana, profondo come la sua solitudine assoluta.

virgilio

Guardando oltre l'orizzonte, al di là della lucida acqua marina (qualche barca alla deriva, arenata ormai da anni, dondolante, carica di tempo e di nulla), mi sono accorta che la distanza che separa l'isola dalla terra ferma, da Virgilio e dalla Sibilla di Cuma, è una distanza tenue ma esatta: poprio quella che metaforicamente separa nella nostra percezione una simile bellezza da un sogno, e a sua volta questa percezione da una illusione. Tanta bellezza infatti, le luci brillanti sul confine quasi immaginario, al di là dell'acqua, la rosea nebbia che avvolge i contorni di quella terra vicinissima, immensamente lontana, della quale m'illudo di sapere tutto, da sempre, quasi fosse la mia terra, la mia storia, e della quale invece la realtà sfugge a tutti, anche a coloro che la abitano davvero, questo segreto e questa bellezza è il suo mistero: una storia bellissima oscillante tra verità e leggenda, una storia che certamente e inconsciamente è la chiave di lettura della mia venuta su quest'isola, un destino quindi che attendo che si sveli, il motivo di questa scelta radicale che non ha nessuna ragione logica, tranne quella di poter rimirare, dalla giusta lontananza, dalla giusta vicinanza, questi luoghi cosi mestamente meravigliosi, che celano dietro la nebbia e dietro l'orizzonte raggiungibile dallo sguardo, le scure acque del lago d'Averno, la piscina mirabilis, e il rifugio sotterraneo della Sibilla, a Cuma, dove prestando con attenzione e senza malizia l'orecchio, mi assicurano che ancora qualche volta si possa udire l'enigmatica e profonda voce della maga pronunciare le frasi labirintiche il cui significato si è perso nei miti, secoli di storia, nei milioni di menzogne che il linguaggio ha acquisito per poter sopravvivere e per farci sopravvivere senza paura. Sta all'uomo ascoltare se vuole e, come nel libro de i King, come nelle improbabili riprove di ogni credo, affidarsi a quel sé medesimo nascosto che contiene già tutte le verità, ma così nascoste che solo un oracolo, comunque questo si disveli attraverso il nastro della storia, potrà riportarle al livello percepibile della coscienza, a filo dell'acqua profonda e della nostra storia genetica degli uomini, farlo divenire la Rivelazione che proviene da questo limo interno e abissale.
Un giorno prenderò una barca fino a Pozzuoli; un giorno, scesa in terra ferma, intraprenderò un circoscritto ma lunghissimo viaggio alla ricerca della tomba di Virgilio, del mistero che certamente è chiuso nella povera, rovinata terra del braditismo, nascosto dalle costruzioni dei geometri, dai simboli dell'arricchimento del periodo del boom e della camorra, forse dietro le brutte insegne delle pizzerie e dei nuovi bar. Non so se sia Enea l'anti Ulisse che cerco, o un improbabile Edipo che, con un destino così grande e tragico fu pur sempre degno di ascoltare e quindi risolvere un ingannevole enigma, forse in una Tebe del tutto simile alla terra che è qui di fronte. Tutti abbiamo un Laio sulla nostra strada, abbiamo tutti, o per lo meno tutti coloro che un giorno hanno camminato per arrivare altrove, reciso i lacci soffocanti del passato prossimo. E tutti a un certo punto, certi di avere scelto una realtà nuova e adatta a noi, ci siamo accorti che questa realtà abbracciata con entusiasmo altro non era che la storia che ci stava alle spalle, camuffata. La nostra Giocasta, il nostro destino. E saremo puniti con la nostra cecità. Avremo in realtà amato troppo noi stessi.

ingegnere

Una strada affollata, clacson che suonano, traffico scomposto e incrostato di caldo. E' la città estiva. Ad un incrocio, un uomo dagli occhi marroni come le castagne, la pelle ambrata e le mani lunghe e bellissime, ferma le macchine e si offre di pulire i cruscotti. Tanti rifiuti, sgassate impertinenti, qualche vetro da pulire, "in fretta, dai", qualche mancia buttata là, commenti razzisti o pietisti, mai uno sguardo da essere umano a essere umano.
Dall'altro lato della strada un uomo è fermo e, rivolto verso la sua parte, "ingegnere", chiama. Un tuffo al cuore. Chi lo riconosce? Qualcuno per cui anche lui ha un nome, un titolo, una vita? Guarda verso la persona che ha chiamato, sorride, gli occhi intelligenti orgogliosi, lo sguardo dritto di chi ha dignità e sicurezza. E' un attimo. L'uomo, dall'altra parte della strada, ha trovato il "suo" ingegnere, gli sta stringendo la mano. Si era sbagliato, ormai in questa terra così straniera, così estranea, così ignara dei suoi nuovi abitanti, i vù cumprà, i pulisci vetri, e mille altri, lui, come tutti, non ha nome, è un "ei, tu", un accattone senza dignità, ipotetico ignorante extracomunitario, rubalavoro, drogato, ladro, stupratore, nessuno.
Eppure lo aveva chiamato: "Ingegnere..."proprio come lo chiamano al suo paese, perchè lui è davvero un ingegnere.


uno sonosciuto

Prendendo a destra dalla marina grande, dopo la chiesa della Madonna delle Grazie, si arriva al limite della zona del porto. Alcune barche a vela ancorate lì da mesi e in attesa di chissà quale viaggio e di chissà quali pirati, dondolano suonando le sartie come delle arpe. L'aria è serena e calmissima. Le case riflesse nell'acqua sono madreperlacee e parafrasano un'immagine oleografica ottocentesca. Napoli. Veduta con il Vesuvio. Procida. Pescatori sulle loro barche. Veduta di Capri. Ischia. Il castello aragonese. Come degli acquerelli. Il silenzio, non assoluto, ma armonicamente scandito dai soliti rumori della vita che quietamente scorre, il martellare di Mimì il fabbro, (di lui parleremo dopo), il ciuco Caterina con il basto carico di tre o quattro specie di verdure (quelle dell'orto in questa stagione) e il suo vecchio padrone che riempie i cestini calati dagli altissimi palazzi sul mare, dai vefi, i mezzi archi a collo di giraffa che caratterizzano le costruzioni procidane. Il sole non più sgargiante, ma lucido, preciso, roseo, scalda i colori delle facciate e così i rosa e i gialli zolfo diventano quasi arancio, ed entra dai tondi rosoni che illuminano le ripidissime e bianchissime scale che portano alle abitazioni, così alte che chi vi abita sconfina a livello degli orti, in cima alla salita, e dalle finestre a volte vuote, si intravedono gli agrumeti rigogliosi dall'atra parte della casa. Proseguendo verso la punta della lingua, si attraversa la parte più brutta del luogo, un tratto di spiaggia dove stazionano i camion della spazzatura; intorno a questi, insieme all''odore di polvere e di marcio, lavatrici abbandonate, ferri arrugginiti, materassi le cui macchie immonde bagnate dall'umido della notte marina sono divenute presenze oscene e inquietanti, sedie rotte e irrecuperabili e tanti, tanti cani neri liberi e in branco che rovistano ovunque in cerca del loro tesoro. Ma oltrepassando questo pezzo di terreno, si torna sui sassi che finiscono al mare, si costeggiano gli scogli fino quasi a giungere sotto la Terra Murata, lo sperone di Santa Margherita Vecchia, dell'ex penitenziario. Una serie di piccoli scogli si protendono sul mare e l'ultimo, la vedetta direi, si erige come un braccio, con la sua croce di ferro arrugginito piantata sull'ultima roccia. Una mattina ero arrivata fin là, saltando da scoglio a scoglio per poi trovarmi in un luogo solitario e bellissimo, lambito da una chiara acqua trasparente e oltre al quale si intuisce la vicinanza dell'altra insenatura, il porto della Corricella. Come ogni mattina presto, appena arrivata mi ero immersa nell'acqua freschissima, una sorta di rito dionisiaco, dolcissimo, propiziatorio per una giornata fatta di piccoli piaceri. Al ritorno sullo scoglio, un signore dal volto serio e dolcissimo stava in piedi appoggiato alla parete dello strapiombo, guardando l'infinito. Ho detto l'infinito, non l'orizzonte, non la lontananza. La sua mezza età era corpulenta. Indossava un costume da bagno a pantaloncini di lana blu scura con una cintura bianca. A fianco, su uno scoglio e accuratamente piegati, erano i suoi abiti: grigio scuro mi sembra. Quel giorno, oltre ad accennare un lieve saluto di pura convenienza, non scambiammo nessuna parola. Il triste signore continuò a lungo a guardare l'infinito, finché, con mia sorpresa, presa una maschera e delle pinne che non avevo notato, si immerse nell'acqua, nuotando verso la profondità, e sparì dietro il prossimo orizzonte dell'ultimo scoglio. Tornata a casa ricordo di avere ripernsato, forse distrattamente, a questo signore così particolare, ma poi lo svolgersi della vita ha cancellato tutto. Dopo qualche giorno sono ritornata in quel posto. Sempre molto presto la mattina (forse le 8, forse prima), sempre il bagno freschissimo e profumato di alghe, il silenzio, e poi ecco il signore. Fermo contro lo scoglio, il costume di lana umido, appesantito da questa umidità, il corpo grigiastro, astratto, lo sguardo azzurro verso il nulla o verso il tutto, i capelli scuri lievemente ingrigiti.
-Ha lasciato lei questi sandali?- mi disse
-Sì, grazie! Li ho molto cercati! -
-Li ho seppelliti sotto le alghe in modo che nessuno potesse prenderli, finché non avessi potuto chiederle se erano effettivamente suoi.
-Grazie-
Non so come gli chiesi se fosse procidano, se anche lui amasse il mare di mattina presto, e altro. Rispose che sì, era di Procida, ma ci mancava da molto anni, che ogni mattina arrivava con il primo traghetto da Napoli, per stare lì a guardare i suoi scogli, a sentire la sua terra, a rivivere i suoi ricordi. Molto banalmente gli feci notare che, stando a Napoli, non doveva essere difficile tornare a stare a Procida, che se ne aveva così tanta nostalgia avrebbe dovuto cambiare la sua vita, seguire i suoi desideri. Con molta tristezza mi disse che questo per lui non era possibile. E basta. Tacque e non parlammo più. La sua età non più giovanissima e la sua atletica dimestichezza con il mare tornarono a meravigliarmi. Era una persona che certamente non apparteneva ad una realtà contemporanea, uno strano personaggio da dopo-guerra; gli stessi colori grigiastri da denutrizione, in un corpo invece muscoloso, di quella muscolosità da mezza età di un uomo che se l'è sempre cavata da solo nella vita. Quello che si dice un uomo capace. Ma il volto, lo sguardo smarrito e castissimo no. Quelli appartenevano ad un'altra sfera. Ho subito iniziato a fantasticare sulla sua vita. Un vedovo? Un inconsolabile uomo rifiutato dalla vita, dal successo? Un impiegato avvilito e ormai senza aspettative? Un professore in pensione? Un uomo che ha perso qualcuno, mi sembrava, oppure un uomo con un destino davvero diverso. Il costume di lana fatto a maglia, poi, si usava almeno cinquant'anni fa. E lui lo indossava tranquillamente. E la sua potenza e resistenza nel nuotare così a lungo, sparendo addirittura dal campo visivo, e la sua assoluta solitudine, la tristissima cortesia, la discrezione. Tutto sembrava molto strano. Poi non lo vidi più. La mattina non veniva più sullo scoglio. Ha finito le ferie, pensai. Passa la fine estate, passa l'inverno e arriva la Pasqua. Procida per Pasqua è trionfante di penitenze e di giubili. Un giorno mentre tornavo a casa e scendevo per il canalone. Molta gente con i pacchi della spesa, vocii, un grande senso di festa. Camminando ho alzato gli occhi e, davanti a me, vedo un uomo, lui, tutto vestito di grigio, lo sguardo azzurro serio e triste, una camicia bianca senza colletto e al collo, attaccata ad una grossa catena scura, un grande crocifisso di ferro, così grande che prendeva tutto lo spazio lasciato libero dalla giacca abbottonata. Volevo parlargli, salutarlo, ma il suo sguardo non mi ha assolutamente incoraggiato, e forse nemmeno riconosciuto. Se era un prete, era uno strano prete. Forse faceva parte di qualche setta religiosa nascosta, forse era solo votato a Dio, forse era un pazzo, ma sicuramente era straordinario. Sicuramente non l'ho dimenticato, ma lui non lo sa.


all'aeroporto

Un aereo sta per partire: in una sala d'attesa riservata, delle persone stanno conversando, circondate da quell'alone profumato e superfluo che solo il lusso sa dare. Vengono chiamate "fortunate", "baciate dalla vita", "beate loro", sono inutili modelli che fuggono verso una meta che nessuno raggiungerà, il cui percorso é celato nella cecità della fortuna e del suo inganno.
Fuori, tra i tanti viaggiatori che fanno la fila per il controllo dei passaporti, passa, preceduta da un odore di muffa, di pietre bagnate e di strati di sofferenza divenuta quotidianità, una donna senza età, dilatata dai digiuni, dalla quantità di pane che troppo spesso ha sostituito un cibo più articolato: chi é? piuttosto, chi era? non lo sa più, non ha più importanza, è solo una donna che vive, il suo passato sepolto sotto la cenere della rassegnazione, gli eventi della sua vita cancellati dal disinteresse del mondo intorno e dall'apatia che la pone ormai al di là di ogni identità, il suo futuro? un vuoto a perdere, una bottiglia di plastica, una scatola di cartone, la naturale scansione delle ore, dettata dalla luce solare, dalle luci al neon dell'aeroporto che si accendono la mattina e si spengono la notte, con la chiusura dei cancelli che la lascia fuori. La morte? e chissà se la morte arriverà anche per lei o se non sarà dimenticata anche da questo nobile traguardo, da questo retorico premio per i giusti e condanna per gli indifferenti. Nè la nascita né la morte né le giornate hanno realtà, solo un presente ripetitivo, così fermo da essere assolutamente magico, assoluto, fuori dal tempo e ormai fuori dalle paure, e dove la speranza non ha senso, come la banalità di una favola a lieto fine.
La donna avanza con un cumulo di stracci, cartacce e vecchie coperte accatastate su un carrello dell'aeroporto che i vigilanti fanno finta di non riconoscere e non le sequestrano: la sua casa ambulante. L'odore della donna, via via che si avvicina alle persone che aspettano in fila, diventa forte acre e quasi insopportabile: forse perché é così animalesco da ricordare a tutti la loro primordiale innocenza?
Un sentore che non ha niente da spartire con l'alone profumato della saletta dei vip, nessuna gradazione li assembla, nessuna possibilità di chiamarli entrambi aromi, e nessuno dei due lo é: uno, primordiale, somma di essenze corporali ormai sedimentate sulla pelle dura, incrostata, screpolata, è l'esasperazione della metamorfosi naturale, degli autunni con le sue foglie marce, della scia con cui la morte stessa trascina via ogni vivente. L'altro, un camuffamento sintetico, una sovrapposizione stereotipa e costosa che esprime una quotidianità prevedibile e prefabbricata, una storia di apparenza e di stupida ricerca di felicità, come una sovrapposizione al sé che assolva il compito di coprire ogni personale sapore della pelle, della vita, come se fosse una vergogna esistere come esseri umani, mortali, uno strato di fiori indossato come una barriera per non essere mai assimilati nemmeno come "genere" alla donna senza nome e senza storia.
Ma alla donna senza storia non appartiene la vecchiaia e nemmeno la morte e questo fa di lei una persona libera, di nuovo innocente, piena di una sua particolare grazia, senza paura, quella paura per la quale gli altri, i "beati loro", ricoprono i loro escrementi con essenze esotiche al fine di dimenticare la loro ossessione, la loro imminente vecchiaia, la loro morte sicura.
Passando attraverso la coda di persone che aspettano il proprio turno, la donna senza età e senza paura, con il suo ingombrante carrello, con il suo ingombrante odore, sorridente chiede scusa e, se qualcuno si scansa per evitarla stringendo la borsetta più forte fra le mani, la donna raccatta questo gesto come una cicca per terra, come un dono, come una gentilezza fatta a lei e, lei sola fra tutti, dice - grazie - e se ne va verso il suo sempre.

sirena


Ogni sera alle sei e mezzo circa, tornava a casa. Durante il solito tragitto dall'ufficio a via Garibaldi 6, si fermava a comprare il giornale, mezzo filone di pane, mezzo litro di latte, mezzo chilo di mele, due uova e un cesto di insalata, ma un cesto piccolo perché era solo a mangiare.
Era mercoledì; un giorno qualsiasi ma con l'aggravante di essere nel mezzo della settimana, né all'inizio né vicino alla sospirata domenica, alla festa consumata a riposare, a rimettere a posto le due stanze che abitava, sempre con l'intervallo della telefonata alla madre rimasta al paese (come stai? che tempo fa? allora ciao e mi raccomando quello che sai), tre minuti appena a metà costo festivo.
Era mercoledì, appunto. Si sentiva abbastanza bene, non faceva troppo freddo e le strade erano appena inumidite dalla nebbia novembrina. Le luci dei pochi negozi abituali sembravano fioche ed i passanti erano rari e raccolti in sé.
Dal giornalaio una grande civetta reclamizzava una nuova rivista di viaggi, viaggi di sogno, viaggi per tutti, per ricchi e per poveri, per giovani e per meno giovani, per coppie o per singoli. Viaggi alla portata e alla misura di ognuno. La rivista, gli disse il giornalaio, era venduta a un costo promozionale.- La vuole?-
Uscì con quel lieve peso in più sotto il braccio, un pò emozionato e impaziente di potersi sedere sulla poltrona nell'angolo a sfogliare quelle immagini di promesse, dopo aver adempiuto ai domestici riti quotidiani. Girò la chiave nella toppa, una, due, tre mandate.
Una volta in casa accese l'interruttore della luce, si tolse il cappotto, si cambiò le scarpe, sfece i pacchetti e ripose le provviste nel frigorifero. Nel piccolo bagno aprì il rubinetto sul lavandino crettato, si lavò le mani con la saponetta verde acido che gli lasciava sempre addosso un odore di disinfettante, quindi, certo di non aver omesso niente di ciò che da cinquant'anni gli veniva amorevolmente imposto di fare, si sedette, tirò un grande sospiro di soddisfazione e si mise a sfogliare la sua rivista. Le prime pagine erano piene di pubblicità: piscine gigantesche ai bordi di giardini pettinatissimi ed esuberanti, la marca di una birra bevuta freddissima sulla riva del mare, alcune seggiole da giardino pesanti e complicate, ombrelloni di paglia sfrangiata, olii abbronzanti che promettevano una pelle color cioccolato e, via via che le pubblicità si esaurivano, finalmente ecco delle immagini di città: Vienna, le sue costruzioni settecentesche, il suo parco nel cuore stesso della città, i suoi caffé dai quali sembrava uscire la musica di un trio femminile (Strauss?); Venezia specchiata nell'opacità della sua laguna, le chiese levantine di zucchero, i ristoranti dai nomi per lui strani, e ancora delle maschere di cartapesta. Continuò così, tra l'ammirazione e la noia, forse lievemente deluso: si era aspettato molto di più da quella trasgressione, dal piccolo lusso di quell'acquisto non previsto nel suo bilancio.
Ora gli occhi gli si chiudevano quasi, un torpore senza desideri e senza speranze lo avvolgeva tutto, quasi proteggendolo da impossibili sogni di avventure. Allora, dentro la sua mente "vide" ciò che forse si era aspettato di trovare nelle pagine lasciate aperte sulle ginocchia: si trovava all'improvviso in una piccola città bianca; qualche costruzione spagnoleggiante ed aguzza si stagliava contro un cielo estremamente blu. Camminava felice nelle piccole stradine; bancarelle colorate esponevano la loro miracolosa mercanzia: "pescado", questo invito era un canto: "pescado, buscate, buscate"; all'angolo, proprio accanto ad un piccolo caffé con dei tavolini nella strada, una giovane donna bruna dagli occhi brucianti era ferma ad attendere qualcuno.
Le rondini, bassissime, scandivano con i loro gridi la sera in arrivo. Lunghe ombre azzurre proseguivano l'architettura neogotica delle case bianche, la ingigantivano e la allungavano sulle strade, ammorbidendola sugli scalini bianchi e gonfi di calce, deformandone le linee rette, quasi che un Gaudì si stesse divertendo a reinventarla. "Pescado, buscate, buscate".
In fondo, una piazzetta ombrosa: alberi che la sera rendeva più che mai profumati offrivano alla vista e al tatto fiori vellutati e grandi, miracoli che la mattina dopo sarebbero scomparsi, per riapparire ancora e ancora tutto l'anno nel fresco meritato del tramonto. Si incamminò verso la luce rossastra e netta che lo attendeva in fondo: un orizzonte di acqua viva e lucida, un odore di iodio e di alghe, il fruscio delle rare onde che si abbandonavano languidamente sulla riva, ritmicamente come un lungo amplesso, ancora e ancora. Ancorate a delle boe azzurre, alcune barche di legno, decorate con colori sfacciati e bellissimi, si dondolavano, invitanti. Una soprattutto lo colpì, sulla fiancata vi era disegnata una sirena, una figura opulenta di donna con la sua lunga coda argentata di pesce, gli ingenui colori del rosa, del giallo e del celeste la rivestivano di serenità. Due scalini semisommersi nell'acqua, scivolosi, rendevano possibile salirci sopra. "Sirena", era scritto a poppa. Più tardi ci sarebbe andato e forse ci sarebbe rimasto a lungo. Per sempre?
Il suono dei suoi passi gli sembrò per un attimo raddoppiato. Si voltò senza alcuna paura; l'incognito, in quella dimensione immaginaria, gli sembrava straordinario. Dietro di lui, languida e sorridente, la donna dagli occhi di brace camminava con il ritmo dei suoi stessi passi, un duetto scandito nel silenzio e nei profumi dell'aria. Non se ne meravigliò. Non aveva forse sempre dovuto scancellare proprio questo sogno?
Piano piano riaprì gli occhi; intorno a lui la stanza era semibuia, il frigorifero faceva il solito rumore, ora sì, ora no, e così da sempre. Si alzò con il cuore che batteva ancora forte, ma senza nostalgia per il sogno appena fatto. Automaticammente, nonostante fosse tardi per uscire, andò verso la porta di ingresso e l'aprì. Non si voltò indietro per chiudere con le solite tre mandate a chiave. Scese le scale tranquillo e finalmente bellissimo. Aprì il portoncino scrostato e si lasciò alle spalle l'ingresso buio e umido. Fuori, la luce intensa e blu della sera lo avvolse tutto. Respirò il profumo dei grandi fiori notturni, scese lentamente i tre gradini lambiti dall'acqua marina, scavalcò la fiancata di legno della Sirena (che odorava ancora del sole che l'aveva scaldata durante tutto il giorno), godette del dondolio morbido e silenzioso delle onde lievi contro la barca, tese la mano alla ragazza dagli occhi di brace. Si sedettero accanto. Con calma e sapienza sciolse il nodo della cima che tratteneva la barca alla sua boa colorata, mise i remi negli scalmi, sorrise, sorrise, sorrise ed infine ridendo prese il largo con la ragazza.






a silvia

-..Silvia rimembri ancora.., - udii.
Passavo di là per caso; uno strano posto nella città vecchia invaso da forti odori di spezie e di polvere.
- Senta, - disse l'uomo toccandomi appena, - cerca qualcosa?
Rimanemmo accanto a lungo; la luce calava e la sera era ormai peciosa e densa. Forse era tarda estate.
- Se Leopardi...allora Joyce non poteva che scrivere l'Ulisse. -
Entrati in un caffé, un grande specchio inclinato rifletté le nostre figure rendendole quasi grottesche.
- A cosa pensa?.. -
- Silvia rimembri ancora.. cos'è il ricordo? -
Fuori ora pioveva ed era notte. Un cane, abbaiando, scandì il silenzio che ci avvolse quando ci separammo.
D'un tratto, ormai lontani l'uno dall'altra, l'uomo si voltò e con voce alta perché potessi udirlo disse: - Lei si chiama Silvia, vero? -
- Sì, - risposi.
E' stata la mia bugia più bella.