riflessioni sull'arte contemporanea

L'arte è sempre veggenza/preveggenza sul proprio presente e sempre tutta, in ogni sua disciplina usa non solo gli strumenti ma soprattutto la profonda bellezza del proprio tempo rendendolo eterno.
Gli abiti barocchi di Hogarth, il canto armonico dell'opera lirica, la lavagna nera e il gessetto di Cy Twombly e di Joseph Beuys come sono nei nostri bistrot per raccontare i menù del giorno.. per questa complessità l'arte è sempre contemporanea, interpreta sublima e entra nel presente per renderlo nostro, lineare e fermo nel tempo; l'arte disegna la storia in modo strutturale e attraverso il tempo è passata dall'interpretazione e enfatizzazione della realtà alla sua tautologica lettura, al suo semplice uso. Nella nostra epoca l'artista pone e propone lo sguardo su ciò che è parte della nostra vita: ad esempio nell’arte denominata da Celant “arte povera”, in realtà l'artista crea la sua opera solo “vedendo davvero ciò che ci circonda” mostrandocene solo un'altra profondità dove la bellezza è perfino secondaria, privilegiando piuttosto l'emozione di vedere davvero "quella"lavagna nera tracciata con un gessetto bianco” comeuna vera opera d’arte. L’arte che convenzionalmente chiamiamo contemporanea esce quindi dalla formalità dell'abbellimento e della rappresentazione che i secoli passati hanno messo in scena, così che anche la musica si spoglia e diventa minimalista come insegna Phil Glass. Però se ascoltiamo la musica di Vincenzo Bellini, noi, ora, in quel Bellini ci sarà anche la lavagna nera del bistrot di Twombly, la serialità delle note di Glass o la nuova armonia di Alvo Part.. l'arte è sempre contemporanea perché è per l'uomo, per il suo sguardo e per le sue emozioni che sono sempre ogni giorno solo nel presente. 
Mentre nelle arti del passato il fine era quello di esaltare la bellezza e l'armonia del creato, di Dio o delle opere dell'uomo, la perfezione della fattura e quindi la manualità dell'artista, nelle arti del nostro tempo il fine è quello di mostrare che questa bellezza e questa armonia, se sappiamo vederla, è già ovunque e anche nel trash. Il manufatto sparisce e nasce il progetto che scorpora ciò che già esiste dalla banalità dove è confinato per esporlo al mondo come "eccezione”, e siccome il luogo deputato per esporre è il museo o la galleria, e siccome (Duchamp) tutto ciò che è mostrato in un luogo deputato all'arte diventa arte, nella nostra storia abbiamo la fortuna di poter chiamare arte anche lo scarto e magari di commuoverci per la sua insospettata bellezza. 

La seduzione

La seduzione


Voglio parlare di questo elemento, questa forza fondamentale dell’animo umano per me indissociabile dall’intenzioni della propria vita, dalla realizzazione dei progetti, imprescindibile alla spinta vitale interiore, l’elan vitale, con tutte le sue infinite sfaccettature fisiche e intellettuali, corpo e anima, forte a ogni le età, uno sorta di stato d’animo che sottende il nostro scegliere, sempre in evoluzione e che si adatta allo scorrere della vita senza attenuarsi con il passare del tempo. Questa pulsione che coinvolge tutte le attese, le esperienze, l’estetica, la comunicazione, l’amore, l’empatia, l’energia, la speranza, il procedere in avanti, la sessualità, l’intelligenza, le scelte, la creatività e anche la memoria. Questa qualità-sensazione-sapienza-desiderio-dignità-attesa-proposta-coinvolgimento-personalità-passato presente e futuro-ricordi-tutta la vita vissuta-tutta la vita come è stata vissuta-pulsioni primitive e primarie-pulsioni culturali e raffinate-scelte personali-privilegi e scarti-sensazioni potenti che conducono il nostro fare-tuffo nella vita-rischio e margine insieme-generosità e egocentrismo-dare avere-mescolare e scegliere-essere noi con forza e non smettere di crederci-
la seduzione.

sul limite

Viviamo senza accorgercene sul bordo di un cerchio, quello della vita, sul limite di questa bolla d'aria che contiene la nostra storia, proprio quel filo che separa il nostro io dall'io degli altri. La buona volontà e l'esperienza devono darci la forza di tagliare nettamente la linea immaginaria che delimita questo cerchio, distenderla e farla diventare una linea retta che scorra all'infinito per andare davvero avanti.

sguardo a ritroso

Ho sempre proiettato la mia vita verso il futuro, dall’oggi in poi, massimo dall’ieri. Ora, forse per la mia età, quasi all’improvviso la storia, quella relativamente recente, quella che mi include, quella dei film in bianco e nero, dei primi video, di certe immagini dei documentari disturbate dai drop out, dell’odore di trementina, dei rumori di scale salite e scese, di piatti smossi in cucina, della sensazione di provvisorietà nella sperimentazione degli anni’70, SONO diventati quasi tutta me. E preferisco ancora le cose imperfette a quelle perfette, credo che anche l’amore si accenda dalle imperfezioni della persona amata, le imperfezioni identificano non solo le persone ma anche le opere d’arte, l’architettura e il cinema, il corpo e i ricordi, le imperfezioni si rivelano importanti solo andando indietro nei ricordi della propria storia, perché nel presente tutto appare bello o brutto, o è perfetto secondo noi o non ci interessa. Forse perché sono una persona che ha sfiorato chi ha fatto la storia dell’arte, ho contribuito anche io come tutti a far essere quegli anni così come sono rimasti nei miei ricordi, a disegnare proprio quella storia che ora mi lievita dentro e che mi turba con una insolita nostalgia per le immagini che ci circondavano, immagini meravigliose, provvisorie e imperfette. Sento un disagio nel vivere una realtà che ci trascina in avanti, senza darci alternative, verso l’alta fedeltà, la “perfezione” che spesso è spietata. Mi meraviglia che in un mondo che si auto definisce “avanzato” non ci sia altra via se non il ricordo per rivivere i momenti che hanno inciso le sensazioni che racchiudiamo in noi, che fanno di noi quello che siamo, che sono noi, che SONO io.
Finche avrò nuovi punti di vista sarò senza età.

una provocazione



Lavoro in situ di Dan Graham sul tetto della ex Dia Foundation, Chelsea, New York

Parto dalla decontestualizzazione dell'oggetto nell'arte video dove il lavoro dell'artista è il contenuto e non il supporto, per azzardare a ipotizzare un percorso dove l'opera d'arte, nel corso del futuro prossimo, sia per destino pensata per scomparire, come gli esseri animati, la vegetazione, persino la pietra e il mare. Accettare che si consumi con il tempo, anche secolare, significa porre l’arte al centro della vita, perchè la vita scorre ed è solo la morte ad essere immobile e eterna. Ipotizzo un’arte che sia testimoniata dal suo progetto originario che ne permetterà la replica sempre autentica e unica. I musei diventerebbero così i luoghi della memoria, i contenitori delle tracce decifrabili che l’umanità scrive per disvelare la bellezza del proprio tempo, quei segni che per convenzione chiamiamo arte, e  sarebbero soprattutto archivi della documentazione della nostra storia culturale e non più le teche preziose che contengono anche opere il cui valore culturale è spesso sorpassato da quello economico. Di questa realtà, dettata anche dall’affollamento di una produzione irrefrenabile, l'arte concettuale e i progetti in situ annunciano già  negli anni recenti il teorema che ora l'arte del 2000 conferma: gli artisti non progettano più le loro opere per collocarle nei mausolei come oggetti inamovibili, protette da intemperie e preservate dal diventare "rottami", ma lavorano proprio sul concetto del riciclo inteso come rinnovo di idee (Picasso, Burri, Raushenberg, Tinguelly, Kienholz, Arman fino a Hirst, Daniel Spoerri, Tadeusz Kantor ed altri hanno già lavorato sul "resto", sullo scarto industriale e biologico in tutte le sue forme), come recupero delle e rinascita dalle scorie, come rinnovo della produzione, attivazione di un mercato di scambio che serva anche all'economia.

Siamo nell'era dell’iperconsumo, gli oggetti di uso sono prodotti in modo da essere velocemente superati da altri e in modo che non valga la pena di accomodarli nel caso di rottura, gli artigiani come i ciabattini, le sarte, i fontanieri e altro stanno cedendo il posto a operai specializzati delle industrie elettroniche che producono continuamente nuovi modelli di ogni utensile diventato per induzione indispensabile, e ogni aggiornamento sarà sempre più a buon prezzo. E' la politica del superfluo, contraddittoria rispetto alle rivendicazioni della sinistra del '900, è la politica radicata nell’illusoria equazione: maggiore consumo = maggiore ricchezza.
L’arte non può tirarsi fuori da questa svolta irreversibile della società dei consumi rifugiandosi nella sterile critica del cambiamento in atto. L'arte non può rimanere l'icona, l’oggetto sacro da venerar e da imbalsamare ma deve avere, come l'uomo, la dignità di esistere e anche quella di finire.
La maggior parte delle opere d’arte di oggi sono mobili, realizzate con materiali deperibili e nella consapevolezza che non verranno esposte nei cosiddetti luoghi a questo deputati ma in ambiti polivalenti che, piuttosto che dagli addetti ai lavori, saranno visitati forse da chi non conosce l’arte, da chi si muove non per cultura ma per curiosità. E queste opere sono progettate e dedicate anche a questi fruitori occasionali. L’artista è quindi cosciente che certi suoi lavori verranno distrutti e la materia prima riciclata, sa anche però che la loro permanenza nella storia permarrà nel progetto: l'anima, il germe dell'opera d'arte stessa.
Ne giardino della casa di Daniel Buren, in un paesino vicino a Parigi, si trova un grande capannone. Un giorno, ospite di Daniel e Chantal, ne ho oltrepassato la soglia e mi sono trovata dinanzi a cataste immense di rottami, legni a strisce di tanti colori, materiali vari con i quali Daniel ha prodotto nel tempo le sue magnifiche opere in situ. Avrei voluto prenderne un pezzetto, rubarlo come un tesoro, avere almeno un frammento di un’opera che mi aveva riempito di emozione. Erano rottami dei lavori che a un pubblico abituato a visitare i musei tradizionali, avevano suscitato il sacro rispetto dell’icona. Di quelle opere  ora rimangono i preziosi e rigorosi progetti, perfetti per riprodurre l’opera virtualmente ovunque. La sostanza, la materia e anche i suoi colori  sono divenuti scarti. Questo è un aspetto importante di molte opere d'arte della nostra epoca.
Tra l’altro esiste da tempo il problema del restauro delle opere del tardo novecento, quelle dell'arte povera. Quasi tutte sono state realizzate con materiali effimeri, paglia, carta, vetro, animali vivi, carbone, fascine di rami secchi, ricami, fiamme ossidriche, impossibile perciò il loro recupero dopo il naturale declino e impensabile clonarle. Occorre quindi accettarne la durata nel tempo come un elemento fondante del loro stesso esistere.
A Firenze avevano progettato di sostituire con una copia il Perseo che taglia la testa alla medusa. di Benvenuto Cellini, affinché le intemperie non sciupassero questo capolavoro. Ma il Cellini ha progettato la sua scultura per quel luogo preciso e senza porsi il problema se l'alternarsi delle stagioni l'avrebbe potuta deteriorare: la ha realizzata dandole, e qui è la sua bellezza, la dignità di esistere nel respiro della vita e quindi anche di venire, da questo ritmo, distrutta.  Non voglio più mausolei, macro strutture immobili e ingombranti, monumenti di artisti architetti che contengono monumenti di artisti visivi, code monumentali di visitatori per partecipare ai monumentali e mondanissimi vernissage. Voglio che l'arte respiri, si offra alla magia dello sguardo con la sorpresa e la meraviglia che sempre tutto ciò che può finire ci dà.  La video arte è stata anticipatrice della riduzione del significato di proprietà e di appartenenza e da questa pratica nasce la mia provocazione.
Deleuze sosteneva che agire sulla sottrazione è più importante che amplificare le cose, i concetti. Contrastare la società che fagocita tutto, ma che è creata e ricreata da ognuno di noi ogni giorno per saziare la nostra frenesia di vivere di più, più veloci e in meno tempo, è un'utopia.  L’arte fa parte della vita quotidiana, si evolve o si devolve con noi, l'epoca della sublimazione è davvero finita, ma questo non toglie che le opere d'arte del nostro tempo siano davvero sublimi e inducano all’incanto e al disincanto, forse proprio perchè non destinate alla permanenza nella storia al di là del tempo immaginabile per ‘una’ vita.
Parlando di “recupero”, non ho di proposito citato Duchamp perché, pur essendo il precursore dell'importante processo di designificazione del percorso artistico dal '900, non ha mantenuto il significato semantico dell'oggetto estrapolato, nel suo "ready made",  ma lo ha sublimato, decontestualizzandolo. Ha preso infatti degli oggetti consueti per porli altrove (nel museo), li ha tolti dalla convenzione banale dell'accezione comune per mostrarne un’altra bellezza, ha cambiato solo il punto di vista togliendo il valore di uso dell'oggetto e trasformandolo in "altro"(Marcel Broodtaers diceva: da Duchamp in poi l'artista è l'autore di una definizione che si va a sostituire a quella propria dell'oggetto che ha scelto"). Con la partita a scacchi giocata con l’alter ego Rrose Sélavy o nella cabala del grande vetro “La Mariée mise à nu par ses célibataires, meme”, sul quale ha lavorato per 13 anni e nel quale l’involontaria rottura occorsa durante un trasporto dell’opera diviene parte della stessa (inizio della valorizzazione della rottamazione), o ancora nel piccolo foro della serratura di una porta che permette alla curiosità del visitatore di spiare oltre,  Duchamp sviluppa una concezione fondata sempre più su una elaborazione mentale che lo porta a spostarsi progressivamente dall’arte visiva fino ad arrivare all’arte concettuale. Credo che l’artista oggi si muova diversamente, usi la storia come punto di partenza per effettuare poi un percorso che riflette la vita metropolitana del poprio presente e non cerchi di restituire nessun'estetica ai rottami, concetto pur sempre privilegiato e quindi borghese, ma che accetti la non estetica per quello che è, senza esorcizzarla con magie, rispettando  la desolazione di quello che le città vivono oggi, consapevole che l'arte non dove abbellire ma insegnare ad amare la realtà, a vederne un'altra bellezza, quella più nascosta e indicare che del degrado la vergogna non è di chi lo vive ma di chi lo induce. Duchamp ha lavorato invece "dall'alto della sua straordinaria intuizione, da un privilegio che oggi non potrebbe esistere, da gran signore, il suo urinatoio diventa persino elegante e nessuno ci farebbe pipì.
E’ solo Il concetto borghese che esorcizza e nasconde la malattia, la vecchiaia e la morte, che indica il residuo come vergognoso e la periferia come il luogo desolato, limitrofo di una centralità  per antonomasia“bella ”. L’artista oggi sa che deve ridare dignità a questa periferia, a questo limite che oltrepassa il concetto di bellezza prefabbricata, perché riconosce il naturale degrado delle cose nel degrado del  corpo di tutti. Occorre imparare a non pensare all’opera d’arte come a un patrimonio stabile  per diritto, che  sopravviva nei secoli preservata da quegli oltraggi che invece offendono e umiliano continuamente le persone umane, imbalsamata perché resista oltre il passaggio naturale delle cose viventi. L’artista oggi,  più che di arricchire un museo con la sua opera, lavora per ridare dignità all’essere umano, per indicargli quella libertà che gli permetta di godere della bellezza della vita e quindi della bellezza dell'arte, lavora quindi per rendere l'uomo consapevole di essere parte di tutta la bellezza del mondo. Ma non bisogna vergognarsi del brutto: perchè il rifiuto è  spesso davvero sublime rispetto alla squallida perfezione esteriore cui la società tutta tende...
procida, novembre 2010

Terry Fox


Ripensavo stamani alla essenziale innocenza di Terry Fox espressa nei suoi "children's tapes" . Questi brevi video sono dedicati al piccolo Foxy, il suo bambino che con cura quasi materna ha accudito e cresciuto con tale rispetto da non avere osato nemmeno di dargli un vero nome, lo aveva infatti soprannominato "Foxy", da Fox, il loro cognome. Questo nick name, secondo Terry, avrebbe dovuto accompagnare il bambino fino all'età adulta, quando sarebbe stato lui stesso a scegliersi il proprio nome definitivo, quello in cui riconoscersi. Mi domando, oltre la dolcezza e l'ingenuità di questa idea, se il piccolo Foxy, una volta uomo, sarà mai riuscito a trovare un altro suono oltre a Foxy che foneticamente somigliasse, più di questo, al suo io. La nostra identità si forma anche attraverso la parola con cui veniamo riconosciuti, contattati, che ci fa comunicare con il mondo. Il nome.

Questi video sono dei cortissimi eventi, realizzati in un bianco e nero morbido e rotondo come solo la povera tecnologia di allora sapeva produrre. Non esistendo il colore, tutta la ricerca estetica cromatica si consumava nella perfezione dei grigi e il risultato era straordinario. Come nella fotografia e nel cinema. Sono brani di gesti quotidiani, una forchetta appoggiata a una scodella, la sua caduta sulla tovaglia, o un coprivivande posato su di una ciotola e il ronzio di una mosca imprigionata dentro, il rumore secco di un oggetto che cade e rompe il particolare silenzio dei video di quegli anni "no sound"...dei capolavori
Ma Terry stesso era un capolavoro, coraggioso e dolcissimo. Nella sua breve vita non si è reso conto di quanto queste sue minime opere miti e attente alla vita fossero importanti per connotare un periodo così basilare per la storia della video arte.
Ricordo la sua gioia e la sua ironia quando, seduto su una semplice sedia impagliata, per la strada. fuori dal portone di via Ricasoli 22 a Firenze, dove abitavo e dove era la sede dell'art/tapes/22,  suonava una sega da falegname con un archetto da violino, una musica stridula e ripetitiva, squillante. Accadeva anche che qualche passante nel vederlo così invisibile gli allungasse qualche lira.
Terry era stato gravemente ammalato e aveva subito delle operazioni molto invalidanti, l'amputazione di una gamba e più tardi anche la rimozione di parte della cassa toracica. Avrebbe quindi dovuto  portare sempre un busto di protezione, ma lui voleva passare anche del tempo senza indossare questa corazza, rimanendo così esposto agli eventi esterni, estremamente vulnerabile. Un giorno mi ha detto: ti faccio un dono raro. Ha preso la mia mano e la ha appoggiata sul suo cuore scoperto, indifeso. Quello che ho percepito è stato un uccellino fremente, un lieve battito aritmico e quasi impercettibile, il suo cuore come il bocciolo di un fiore che si stia schiudendo. Non lo scorderò.

testo sull'arte dopo il 2000

Procida, novembre 2010
Vorrei scrivere una provocazione, a partire dalla decontestualizzazione dell'oggetto nell'arte video, dove l’opera è il contenuto e non il supporto, voglio azzardare a ipotizzare nel corso del futuro prossimo un percorso dove l'opera d'arte sia per destino pensata per scomparire e lasciare il posto ad altre opere: dove a testimoniarla rimanga solo il progetto che le permetta anche di essere replicata nel futuro, sempre autentica e unica. I musei diventerebbero così luoghi della memoria, archivi di documentazione e non più teche preziose per opere il cui valore culturale è spesso sorpassato da quello economico. Di questo concetto, dettato anche dall’affollamento di una produzione irrefrenabile, l'arte concettuale e i progetti in situ ne annunciano il teorema che ora l'arte del 2000 conferma: gli artisti non progettano più le loro opere per collocarle in mausolei, inamovibili, protette da intemperie e preservate dal diventare rottami, ma lavorano proprio sul concetto del riciclo inteso come rinnovo di idee, (Picasso, Burri, Raushenberg, Tinguelly, Kienholz, e altri hanno già lavorato sul "resto", sullo scarto industriale e biologico in tutte le sue forme) come recupero delle e rinascita dalle scorie, come rinnovo di produzione, attivazione di un mercato di scambio che serva anche all'economia.
Siamo nell'era dell’iperconsumo, le cose sono prodotte in modo da essere velocemente superate da altre e in modo che non valga la pena di accomodarle nel caso di rottura, gli artigiani come i ciabattini, le sarte, i fontanieri e altro stanno cedendo il posto a operatori delle industrie elettroniche che sfornano continuamente nuovi modelli di ogni utensile diventato per induzione indispensabile, e sempre più a buon prezzo. E' la politica del superfluo, contraddittoria rispetto alle rivendicazioni della sinistra del '900, radicata nell’illusoria equazione
maggiore consumo = maggiore ricchezza.
Una svolta irreversibile da cui l'arte non può tirarsi fuori, rifugiandosi in una sterile critica di questo cambiamento in atto.. L'arte non deve diventare un'icona, un oggetto sacro da venerare, una conservazione. L'arte deve avere, come l'uomo, la dignità di esistere e anche quella di finire.
La maggior parte degli artisti oggi realizza le sue opere mobili con materiali deperibili, nella consapevolezza che esse verranno esposte non più nei cosiddetti luoghi a questo deputati, ma in ambiti polivalenti non più aperti ai “pochi”, piuttosto invasi anche da chi non conosce l’arte, da chi si muove non per cultura ma per curiosità. L’artista è cosciente che questi lavori verranno distrutti, sa anche però che la loro permanenza nella storia permarrà nel progetto: l'anima, il germe dell'opera d'arte stessa.
Esiste da tempo il problema del restauro delle opere del tardo novecento: l'arte povera, quasi tutta, è realizzata con materiali effimeri, paglia, carta, vetro, fascine di rami secchi; impossibile perciò il recupero e impensabile un clone, occorre accettarne la durata nel tempo come un elemento del suo stesso esistere.
A Firenze hanno progettato di sostituire nella Loggia dei Lanzi in piazza Signoria, il Perseo che taglia la testa alla medusa, di Benvenutuo Cellini, con una sua copia, affinché le intemperie non sciupino questa opera. Ma il Cellini la ha pensata, creata per quel luogo, senza porsi il problema che l'alternarsi delle stagioni l'avrebbe potuta sciupare: la ha realizzata dandole, e qui è la sua bellezza, la dignità di esistere nel respiro della vita, quindi anche di venire, da questo ritmo, distrutta.
Non vogliamo più mausolei, macro strutture immobili e ingombranti, monumenti di architetti che contengano monumenti di artisti, code monumentali per visitare i monumentali e mondanissimi vernissages. Vogliamo che l'arte respiri, si offra alla magia dello sguardo con la sorpresa e la meraviglia che tutto ciò che può finire ci dà. Il video è stato anticipatore della riduzione del significato di proprietà e di appartenenza.
Gilles Deleuze scriveva che agire sulla sottrazione è più importante che amplificare le cose, i concetti. Contrastare la società che fagocita tutto, ma che è creata e ricreata da ognuno di noi ogni giorno per saziare la nostra frenesia di vivere più concretatamente, di più e in meno tempo, è utopia.
E l'arte fa parte della vita quotidiana, si evolve o si devolve con noi, l'epoca della sublimazione è finita, ma questo non toglie che le opere d'arte del nostro tempo siano davvero sublimi, forse proprio perchè non destinate alla permanenza nella storia al di là del tempo immaginabile per ‘una’ vita.

maria gloria conti bicocchi

un'ipotesi sul prcorso antropologico dell'espressione artistica

L'approccio antropologico alla storia dell'umanità, al percorso culturale e spirituale che l'uomo ha attraversato nei secoli, sembra rivelare delle tappe precise e non sempre conseguenti: nella preistoria e nei secoli subito successivi, fino alla nascita di una conclamata filosofia e di una razionalità, il culto degli antenati, il senso panreligioso, animistico o monoteistico, erano la naturale e sola vocazione, l'unica risorsa culurale di sopravvivenza per accettare il fatalismo dell'esistenza senza interrogarsi sul bene e sul male, dello scorrere
dei giorni e della vita.
La naturalezza delle nascite e delle morti.
Poi, con la necessità della predominanza sugli altri, da qui intesi come diversi da noi e non più parte di una comunità, della "sopravvivenza", della conquista e quindi delle guerre per difendere il territorio (anche fra tribùWinking si è instaurato il primo senso di proprietà, la difesa del territorio come bene predestinato, spesso legato alle divisioni sociali, ereditario e quindi fatale, inalienabile, doverosamente difendibile, voluto da Dio, quindi la prima forma di egoismo e di divisioni di caste, la nascita del potere temporaneo che appare eterno in quanto trasmissibile agli eredi diretti, una perennità di privilegi proiettati anche nei tempi che verranno e legati all'appartenenza a vari clan familiari.
Per riscattare l'odio prevalente e la barbarie di queste piccole conquiste è subentrato il concetto di "anima", l'arte come rappresentazione di Dio, riscatto collettivo verso il bene, l'omaggio al divino: promossa dai mecenati, l'arte delle botteghe di artisti che lavoravano insieme, è una sorta di artigianato sublime, ma sempre su commissione di altri, al servizio di un potere illuminato ma dominante, religioso o politico, la rappresentazione di una religione che si manifesta quindi attraverso le opere d'arte, una venerazione che necessita, per esprimersi e per credere, di immagini da adorare, iconografie che sostituiscano la divinità, i santi, gli angeli e i simboli del sacro, quasi una idolatria contrapposta all'iconoclastia della grande religione monoteista degli ebrei, una fede spesso soltanto posta sul visibile e sul riscontrabile, su immagini sostitutive al Dio intoccabile e inimmaginabile.
A questa necessità, della quale l'arte è stata complice assoluta e nella quale già si intravede il seme della borghesia: la chiesa come committente/mecenate e come primo luogo espositivo delle opere, la loro trafugazione da parte dei popoli vincitori di guerre, l'acquisto da parte di principi per adornare i castelli reali, il primo collezionismo quindi, una valutazione dell'arte, che ora ha un autore e non è più solo frutto di una bottega, e che diviene quindi merce desiderabile, valore di scambio, simbolo delle grandi differenze sociali (l'arte è sempre commissionata dai potenti, papi, re, regine), segue l'era della scienza, dell'Illuminismo, un'altra idolatria che sentenzia che senza la conferma scientifica niente sia valutabile come "vero", per cui nasce la diffidenza, i dubbi verso ciò che è empirico, sperimentato singolarmente, l'esperienza del singolo, non riscontrabile porta alla presunzione che il sapere che si ritiene veritiero e inconfutabile, il sapere che appartiene a pochi, sostituisca Dio, un manierismo del pensiero, la trasformazione del sacro da forma di magia a concretezza tangibile, quasi un ateismo, anzi una religione rovesciata, interpretata come razionalismo. La scienza con le sue "riprove" supera sempre se stessa nei passi successivi, e quindi non è mai esatta, mai un capolinea. Alla scienza predominante e intesa come pensiero alto e al suo parziale fallimento come fonte di felicità (vedi la bomba atomica), fa seguito la reazione opposta, quella della estrema valutazione della libertà individuale, i vari "credi", i movimenti ecologici quindi, naturalistici: dalla cultura si torna alla natura impermeata però sempre da una parvenza di scienza sia pur naturalistica e volutamente elementare, primitiva, a un amore verso l'umanità intera, un buonismo ecologico volto alla riappropriazione del senso biologico para-primordiale della natura, alla difesa delle minoranze e degli scempi lasciati dalle guerre e dalle certezze della storia anteriore. Ecco allora la spiritualità individuale, le religioni "fai da te", la riappropriazione dell'anima comunque intesa come salvezza e come speranza, quindi le filosofie orientali come possibilità di sentirsi abitanti del mondo, il viaggio globale (la droga come risoluzione parasciamanica alla limitazione alle percezioni dell'esistenza) come realtà politica e come metafora morale, l'andare in cerca, il mito del viandante, i global trotter, la ricerca di un eden promesso, sempre altrove, la necessità di sottrarre il surplus a chi lo vive, il consumismo, la demonizzazione gli oggetti e di ogni cosidetta (falsa) certezza borghese, una sottrazione così universalmente legata alla nuova cultura da invadere anche l'espressione artistica che ora elimina anch'essa l'oggetto, la stessa manualità e la rappresentazione, per arrivare all'arte "povera" e all'arte "concettuale". Questa riduzione semantica porta necessariamente allo spostamento verso la tecnologia, non più alcuna manualità ma soltanto sfruttamento/uso, anche nell'arte (la video arte, la fotografia, il cinema) della "macchina", come rivoluzione, meta culturale che, lontana dall'ottocentesca idolatria che ha portato al concetto luddistico di espropriazione dell'io da parte delle macchine e quindi alla loro distruzione, è ora necessaria e ambita anche come
social symbol per una fruizione più allargata della ideologia politico-sociale (Benjamin, Adorno), una tecnologia applicata soprattutto alla vita quotidiana, la tv, gli elettrodomestici, una tecnologia intesa come liberazione da una schiavitù casalinga pesante e sempre al femminile: è il femminismo che sta irrompendo anche attraverso questo percorso a difesa dei diritti e delle libertà delle donne, anche se questa libertà è per ora soltanto libertà da una manualità sia pure faticosa e limitante, ma non ancora la libertà totale di esprimere se stesse al femminile, il poter difendere la propria "differenza", senza dover ricorrere ad omologare una uguaglianza con il maschile, uguaglianza mimata e inesistente, come solo mezzo che sembra poter pareggiare diritti e doveri. Vedremo che questo è invece utopistico e riduttivo.
Le immagini virtuali di storie oleografiche e inesistenti portano ormai al mito del "lusso", della moda, dello svago a tutti i costi, apparire, viaggiare, conoscere, attrezzarsi, ricorrere a una tecnologia sofisticata, aerei, navi, telefoni sempre più portatili e onnipresenti, equipaggiamenti protettivi e adatti alle avventure estreme che si offrono all'umanità per soddisfare la vanità, mostrare il
coraggio/machismo, quindi fitness e superio. Siamo nell'era dell'edonismo (body art), del narcisismo, il corpo e solo il corpo rimane, come per Narciso, lo specchio, unico strumento per rimirarsi e riflettere il resto del mondo e l'altro che in tal modo è sempre rapportato a noi e quindi inesistente come persona a sé.
Strumenti per fortificare il corpo, quindi, ma anche medicine per curarlo, salvarlo momentaneamente dalla malattia, interventi incredibili e avanzatissimi per risolvere ogni malattia, allungare la sopravvivenza, ma la morte esiste ancora, un passo più in là.
Siamo nell'era della elettronica e del digitale, sinonimi e veicoli di comunicazione: non più viaggi reali "fai da te", ma solo virtuali, il riposo del guerriero ove il tutto che cercavamo altrove ora entra nel nostro piccolo spazio, (siamo diventati ogniscenti ognipresenti, ora è la montagna/dio che arriva fino da noi, attraverso il monitor), abbiamo davanti a noi tutto ciò che l'uomo "mobile" errante e curioso aveva sperimentato e vissuto nelle tappe storiche attraversate nei secoli: ora e qui ritroviamo una summa incredibile che concentra gli sviluppi dell'uomo sapiens e della sua storia fino all'oggi/domani in un solo clic.
Attraverso e a causa della pseudo conoscenza/informazione di queste tappe che divengono in tal modo inglobate in noi, anche se elementari e semplificate, sopraggiunge la grande paura della morte: il tutto appare a livello inconscio come un assoluto nulla al quale non è più dato partecipare, ormai corpi e non anima/pensiero: è chiaro che nessuna delle scoperte e nessuna delle certezze è stata davvero risolutiva per condurre l'umanità "colta" verso l'improbabile perseguita felicità/eternità, ogni invenzione, scoperta, anche se scaturita da esigenze vere e frutto di ricerche profonde, è stata portatrice solo di illusioni di passaggio, certezze al momento apparentemente risolutive, sicuramente rinvii, ma mai comprensive dell'uomo intero, mai definitive, rassicuranti, mai illuminanti rispetto al percorso indispensabile e ignoto che ci aspetta, alle spalle secoli e secoli di piccole brevi certezze, di piccoli grandi progressi, di dogmi e speranze, presunzioni e rivelazioni, ma che ci hanno lasciati al punto di partenza: riscontrato per assioma che tutte le certezze acquisite siano contraddicibili, superabili e spesso smentibili, non essendo assolute, non sono capaci di risolvere il mistero che rimane celato e inquietante in noi dall'inizio dell'umanità tutta, la grande domanda, l'unica che perseguiamo come salvezza individuale e globale, l'unica domanda chel'uomo abbia pronunciato da sempre in mille modi, sempre ricercandone la soluzione, fin dalla preistoria: di dove veniamo e perché dove andiamo, chi siamo, cosa sia il dolore, cosa la felicità, perché la bellezza ci commuova e l'arte sveli le profondità invisibili del mondo, perché gli scienziati elaborino teorie importanti per la rivelazione e comprensione dell'universo e dei suoi meccanismi, senza arrivare alla sommità della rivelazione che tutto sveli, e perché Dio ci appaia sempre più lontano ogni volta che ci sembra di fare una tappa importante verso la sua conoscenza, pur sentendo atavicamente dentro di noi la necessità insuperabile (proprio perché assolutamente congenita nel genere umano), di credere nel suo mistero.
Cosa è l'illuminazione, lo sguardo estatico verso il bello, cosa il progresso, quale il cammino necessario a condurci verso le certezze, le speranze, o verso una fede semplice e innocente? andare sempre avanti? fermarci sull'"io"? oppure tutto questo è una illusione/presunzione storica? e fermarci ormai sarebbe possibile? cosa significherebbe? perché ogni istante muore qualcosa di noi e cosa è davvero la morte che sempre solo gli altri sperimentano lasciandoci nel loro silenzio assoluto? Può davvero l'arte consolare la nostra ignoranza?

maria gloria conti bicocchi

breve storia di art/tapes/22

Non è facile, dopo tanto tempo, parlare del lavoro che dal 1972 al 1976 gli artisti hanno realizzato con il videotape a Firenze con l'art/tapes/22. Comincerò dal dire che il presupposto di quegli anni era la passione e la curiosità che muoveva le cose, passione che via via ha ceduto il posto alla professionalità. Questa era semmai tutta insita nel lavoro degli artisti, nell'opera finale che spesso, sorprendentemente, risultava aver inglobato le possibilità tecnologiche del mezzo senza che gli artisti stessi lo "conoscessero" davvero, così come accade al genio che sa senza sapere di sapere. Dobbiamo tenere presente che nei primi anni '70 il videotape era pressoché sconosciuto in Italia e in gran parte dell'Europa e che quindi il suo uso era davvero tutto da scoprire. Il risultato è stato straordinario: le opere prodotte da tanti artisti sono esemplari e bellissime, rimangono e rimarranno opere di artisti ben aldilà di essere soltanto "video di artisti"; quando ancora il mezzo non è il linguaggio che aveva profetizzato Marshall McLuhan (e non lo è almeno in Europa, almeno in Italia, almeno a Firenze), ma rappresenta soltanto un supporto spesso necessario all'opera da realizzare ma non autosignificante né protagonista e quindi non condizionante, l'uso della telecamera rimane un'espressione libera e creativa che, oltre a coinvolgere molti artisti fra i più interessanti italiani ed europei (Jannis Kounekllis, Giulio Paolini, Alighiero Boetti, Gino De Dominicis, Daniel Buren, il gruppo di architettiura radicale Ufo, e altri) contagia anche artisti già largamente usi alla sperimentazione elettronica, come Vito Acconci ad esempio e perfino Allan Kaprow, che realizzano a Firenze opere largamente impregnate di libertà e poesia, con lo spazio mentale e fisico di lavorare ad ogni ora del giorno e della notte, senza "operatori in camice bianco", ma con il supporto intelligente di persone come Alberto Pirelli, Carmine Fornari, Andrea Giorgi e Bill Viola che insieme a me dedicano all'avventura dell'art/tapes/22, oltre alla grande professionalità, soprattutto l'amore e la passione per 'arte; allora i videotapes prodotti sono soltanto opere d'arte e il mezzo in sé qualcosa usato dagli artisti così come la tela, la carta, il gesso e altro ancora, le parole, le idee. Il significato dell'opera realizzata con il videotape è infatti legato al concetto di immagini più che alle immagini stesse la cui bellezza è quindi più interiore, più profonda, tende a sottolineare i gesti quotidiani, estrarli dalla banalità e trasportarli nell'assoluto dell'arte. Negli Stati Uniti e in altri luoghi tecnologicamente più evoluti, invece, a partire da Nam Jun Paik (a cui si deve la prima sperimentazione con il video sintetizzatore), la tecnologia è davvero avanzata, c'è una grande facilità nell'usare mezzi sempre più sofisticati che vengono affidati a giovani artisti con delle sponsorizzazioni pubbliche e private, affinché li sperimentino (e divengano loro stessi infine "video artisti") e quindi siano loro, gli artisti, a supportare a loro volta, con il successo del loro lavoro, la tecnologia del potere, l'industria dell'hardware. Tutto ciò inclina l'uso di questo mezzo fino a renderlo un linguaggio specifico, sofisticato, con risultati sorprendenti ma già premonitori di quella realtà virtuale che, sia pure con grande fascino, ci porterà verso il totale solipsismo. Ma forse l'arte è Altro. L'art/tapes/22 non ha mai avuto a che fare con "video artisti", ma con artisti e basta. E' questo che mi trattiene dal prolungarmi: dire delle cose ora e in questi termini può apparire romantico e antiquato, concetti ben lontani entrambi dal significato di quanto tutti insieme abbiamo fatto a Firenze. Ciò che ho detto vuole indicare soltanto una diversità: c'è all'interno del primo approccio al videotape in Italia, ormai così sorpassato nel supporto elettronico (inizialmente soltanto bianco/nero, difetti tecnici dovuti all'esiguità dell'hardware eccetera), un grande spessore, una grande libertà di usare questo mezzo per produrre un'opera d'arte che non sempre è rappresentativa del suo supporto elettronico, ma lo sconfina proprio come l'arte di quegli anni tendeva a sconfinare ogni specificità. Non sperimentazione, ma esperienza. Video come mezzo, quindi, strumento necessario ma non protagonista. I mezzi come sostegno delle idee.
Maria Gloria Bicocchi

testo per un convegno promosso da MarcoMeneguzzi sui diritti d'autore dell'arte in videotape

Sono sempre interessata ad ascoltare gli altri, a dire la mia opinione e anche a cambiarla se è il caso, ma amo il “tu per tu”, il dialogo, e non riesco più a parlare a tante persone insieme. Anche per questo non partecipo all’incontro su un argomento così interessante e difficile come il diritto d’autore sulle opere che gli artisti producono con il video tape. Questa interrogazione è posta da sempre, ma al momento lontano della produzione di art/tapes/22, era assolutamente un problema utopistico, in quanto le opere video non si vendevano, qualche volta si prestavano e solo raramente si affittavano a musei, coraggiose gallerie, centri culturali. E’ chiarissimo per me, ed era anche un’affermazione che faceva parte del contratto che facevamo con gli artisti e in seguito con l’Asac di Venezia, che l’opera prodotta rimanesse assolutamente di proprietà dell’artista, mentre la gestione veniva affidata ad altri (nel mio caso prima alla art/tapes/22 che la produceva a proprie spese, poi all’Asac) che avrebbero corrisposto una parte prestabilita dell’eventuale ricavato all’artista o ai suoi eredi. Premetto che, a parte le rare eccezioni in cui per scelta dell’artista stesso, il videotape viene prodotto soltanto in una o più copie numerate, quindi diviene opera/oggetto che comprende insieme l’opera e il suo supporto, o un multiplo numerato di questa, il mezzo non è di per sé il messaggio, né tantomeno l’opera. Ci troviamo di fronte ad uno sconfinamento-limite dell’opera d’arte, dove la fruizione è reale e simulata insieme, il possesso utopistico - se acquistiamo o copiamo una cassetta di un film, non “possediamo” il film, ma il suo supporto, il mezzo per vederlo – e la sua protezione meccanica impossibile. Abbiamo tutti tolto delle linguette dietro le cassette, ma i video sono stati ugualmente copiati! Per questo immagino un futuro della video arte sempre meno legato al concetto di “opera” intesa nel senso tradizionale di questa parola, per intenderci come quelle prodotte dagli artisti con Gerry Schum, con l’art/tapes/22, Lola Bonora, la galleria Castelli a New York etc, ma un'espansione verso il video clip, tutte le discipline digitali fino a quelle interessantissime che toccano la musica, la regia, fino alla pubblicità industriale.
D’altronde il mezzo stesso con cui l’artista nel nostro caso si esprime, è sinonimo di grande e libera visibilità, ottimalmente quindi fruibile dal mezzo televisivo, dai siti web eccetera, e Gerry Shum l’aveva teorizzato ben quaranta anni fa. Personalmente ho sempre pensato che le opere prodotte da art/tapes/22 fossero idedalmente destinate a canali di grande comunicazione (ad esempio Dauglas Davis, se non mi sbaglio nel 1976, mostrò i suoi video, tra i quali "Florence tape" prodotto da art/tapes/22, come Shum a suo tempo, attraverso la televisione tedesca e in seguito anche in eurovisione), piuttosto che ridimensionati a oggetti e mostrati solo in musei o gallerie, visti da poche persone. Credo sia questo malinteso, il voler ricondurre tutto a “oggetto” vendibile, a porre il problema dei diritti d’autore, laddove per diritti non si parli di proprietà simbolica e morale. I messaggi non si possono possedere, sono come simulacri rispetto a differenti "oggetti d'arte" ed é per questo che, pur sempre duplicati, non ne possono esistere dei "falsi," la copia, in questo caso, è l'unico modo per godere l'opera stessa, ed il mezzo, in questo caso il supporto video, non è quindi il messaggio, ma solo il suo occasionale supporto, come tale suscettibile di continui aggiornamenti. Chi avesse acquistato un video nel 1973, prodotto in nastro real-to-real di ¾ di pollice, ora non avrebbe niente da vedere, ma dato che questa opera può essere riversata in supporti più aggiornati (ed è quello che Giorgio Busetto, curatore dell’Asac, sta facendo anche con i video di art/ tapes/22) ecco che il video può essere ancora e ancora visto in futuro, rimanendo lo stesso "video d'artista", a prescindere dal suo supporto originale, puramente contingente. L’opera incanalata in un supporto video piuttosto che in un altro, non è “possedibile” in sé, è solo godibile atraverso i riversamenti più opportuni. Non facciamo un feticcio del mezzo, soprattutto non allarmiamoci se le opere vengono copiate: al di là della convenienza economica che magari oggi è grande, ma io non mi intendo di mercato, mi sembra belllissimo e anche gratificante per un artista che un suo lavoro sia così bello da far desiderare di poterlo vedere sul proprio televisore… d’altronde evitare questa eventualità è impossibile e sarebbe più realistico prevedere la fruizione dei video di artista in luoghi deputati con affitti corretti che coprano le spese e una compenso per l'artista, l’immissione in canali di grande comunicazione come la tv e soprattutto il web, sempre dietro un compenso adeguato, e per ultimo la vendita (solo se l’artista lo voglia) di opere “uniche” quindi oggettificando il video come messaggio e supporto insieme, in questo caso a prezzo da amatori come le altre opere realizzate con altri mezzi. E alla fine forse è giusto anche accettare la prospettiva della possibile e inevitabile libera duplicazione del video che, come il film, è un'opera di "comunicazione" e non un oggetto immobile in sé. Il volerne controllare l'espansione somiglia un po' ad immettere anche queste opere all'interno di una globalizzazione di mercato alle cui regole sfuggono per la loro stessa natura. Non si può mai trattare una nuova espressione dell’arte con i canoni usati per le altre precedenti. Accettare che esista un’opera d'arte importante che sia fatta con e per il supporto video implica anche un cambiamento di mentalità, di concetto di “possesso” e credo che gli artisti ne siano consapevoli dal primo momento che si avvicinano a questo mezzo. Quindi si può parlare solo di possesso simbolico, di proprietà morale ed etica dell’opera, che è e rimane assolutamente e solo dell’autore.

testo dell'intervista con Cosetta Saba per il libro su art/tapes/22,"Arte in videotape" Silvana editoriale 2007. promosso dal Dams di Gorizia e dall'Asac di Venezia

art/tapes/22. Conversazione con Maria Gloria Bicocchi
a cura di Cosetta G. Saba e Mirco Infanti
Premessa personale all’intervista
Mi trovo ora ad essere appassionata spettatrice delle cose accadute: come avere dato alla luce un figlio e poi accorgersi di avere procreato un genio! Voglio sottolineare che io non sono una critica né tanto meno una storica della videoarte, sono solo (ed è molto) una persona che, nata nel mondo dell’arte (essendo figlia di un artista, nella nostra casa di Fiesole, ora museo Primo Conti, venivano a passare dei giorni con noi Giorgio De Chirico con la moglie, Ungaretti, Montale, Strawinski, eccetera, e ricordo un Natale da Pablo Picasso a Vances) la mia sensibilità è sempre stata spontaneamente rivolta all’arte e sempre al domani, è quindi accaduto che facessi questo importante percorso con gli artisti che lo hanno fatto con me, attraverso art/tapes/22, una sorta di esplorazione nel linguaggio della loro arte in questo caso espressa con il mezzo video. Questo è tutto. Sono stata in senso profondo amica loro e mai committente o critica, abbiamo come “suonato a quattro mani”, la lettura di questo percorso (come accade sempre) è venuta a posteriori, molto molto dopo: al momento eravamo tutti in realtà affascinati proprio dalla non esistenza di canoni o letture in chiavi estetico-filosofiche, apprezzavamo tutti la grande libertà che si stava rivelando in ogni momento. Quello che voglio premettere forse aiuterà a comprendere il senso di tante mie risposte alle vostre domande, e anche il senso di tante "non risposte".
Negli anni di art/tapes/22 l'ideologia poggiava, forse utopisticamente, su grandi azzeramenti per cominciare e non solo ricominciare: critici come Carla Lonzi allora, nel suo libro "Autoritratto" e Adachiara Zevi oggi, nel suo "Peripezie nel dopoguerra nell'arte italiana", hanno poggiato il proprio "mestiere" su una pratica basata sul solo rispetto dell'artista, affidando la lettura dei loro lavori e del loro essere artisti solo al proprio intuito e alla convinzione di “essere partecipi di qualcosa che é cultura", anziché di riprodurla, sempre ponendo e ponendosi delle semplici, semplicissime domande, e lasciando che le risposte fossero già tutte nel lavoro e nelle persone, lasciando gli artisti quindi sempre centrali e assoluti protagonisti.
Dico questo perché ora invece la cultura ha come bisogno di autogarantirsi nella storicizzazione, nelle citazioni e nelle analogie: sono letture molto interessanti, ma assolutamente "a posteriori", il periodo in cui l'opera d'arte nasce è al di fuori da qualsiasi progetto "colto" perché è l’oprra d’arte stessa ad essere “cultura”, e quindi non ha bisogno di riferimenti per esistere. Ad esempio, in Kounellis il lavoro é sempre RIVOLUZIONARIO e in Kosuth il lavoro E’ LA CITAZIONE, la tautologia, queste importanti basi SONO L'OPERA STESSA e non dei riferimenti. La tensione e l'intenzione dell'opera sono sempre autonome rispetto alla probabile lettura critica a posteriori. La conoscenza, indispensabile alla comprensione, deve in qualche modo proporre una scorciatoia, una assolutezza della lettura anziché arricchirla con discipline collaterali come la filosofia, l'estetica, la storia ed altro, questo lavoro di ri-costruzione che la storia fa delle opere prodotte in passati prossimi o remoti, é una necessità tutta legata agli studiosi, agli storici e ai critici, non una necessità dell'artista né tanto meno dell'opera in sé che non ne ha bisogno per esistere.
D'altronde l'artista vero non si riferisce mai a ciò che viene detto del suo lavoro, spesso lo ignora, altre volte non lo condivide: l'analisi delle opere non é un problema suo. Questo era assolutamente il clima in cui art/tapes/22 ha operato, negli anni '72/78, e questa ideologia mi é rimasta indelebile addosso e influenza comunque sempre ogni mio intervento sul passato ma anche sul presente! Lascio quindi ad altri la lettura critica e storica di quegli anni e di quei lavori, di quell’avventura di via Ricasoli 22 a Firenze nella quale mi riconosco troppo per saperla analizzare se non attraverso una partecipazione appassionata…





Intervista

[c.g.s] Vorrei cominciare questa conversazione dal tema del doppio livello di “presenza” che tu senti di avere verso art/tapes/22. La “presenza” di allora: il fare, il pensare art/tapes/22 come se il fatto di intraprendere un percorso esperienziale coincidesse con l’azione di tracciarlo, di "inventarlo", ma senza alcuna predeterminazione o mira; «pensare e fare "art/tapes/22" - hai detto - è stato come "respirare"… ». La “presenza” attuale che implica invece un percorso di storicizzazione e che ti fa guardare a quell’esperienza da una qualche distanza, che ti fa sentire "spettatrice" di art/tapes/22 centro di produzione, distribuzione di videotape d’artista e di disseminazione della "video arte". “Video arte” che allora non un "nome" né definizione (penso alla lunga riflessione che nel 1974 René Berger dedicò a questo tema nel saggio “L’art vidéo. Defis et paradoxes&rdquoWinking
1 e che è ancora oggi investita di problematicità "produttive".

[m.g.b] Sì, ti confermo che il lavoro fatto con gli artisti per produrre le loro opere in video è stato un “lavoro” di attraversamento della mia stessa vita, spesso anche della loro vita, mai un progetto rigoroso, è stata un'operazione assolutamente orizzontale, un percorso creativo come è in realtà quello dell’arte in genere, la cultura cammina precedendo se stessa, va avanti senza premeditazione né disegni di politica culturale.
In quanto alla definizione, ancora oggi "video arte" è tutto e niente. Esistono dei lavori di artisti che hanno semplicemente "usato" il mezzo video ed esistono lavori di artisti (Bill Viola) i cui meravigliosi "tableaux vivants" si basano su una ricerca straordinaria e sofisticata del mezzo e quindi il risultato, al contrario di altre esperienze, è un'opera in verticale, in profondità. Non esiste un “meglio” o un “peggio”, esistono artisti diversi tra loro, liberi di realizzare la propria arte con qualsiasi mezzo e con qualsiasi approccio a ogni mezzo, ed esistono poi persone che vedendo le opere di artisti diversi si riconoscono maggiormente in una piuttosto che in un’altra, soggettivamente e legittimamente.


[c.g.s] Sì, non è certo una questione risolvibile sul piano del giudizio qualitativo o del giudizio estetico. Semmai è un tema che pertiene alla definizione dell’arte, alla vexata quaestio del che cosa sia l’arte o quale sia la sua funzione, anche rispetto ai media e ai linguaggi.
Nell’intervista di Valentina Valentini e Alessandra Cigala - riferendoti in particolare ai No title di Jannis Kounellis e a Unisono di Paolini - sostenevi: «Quando ho iniziato a produrre video di artisti non mi sono rivolta essenzialmente a chi faceva del linguaggio video il suo campo specifico e preferenziale di espressione. Nel campo delle arti visive (e allora eravamo in piena fioritura della Performance art) non ho mai distinto il video-artista dall’artista tout-court che sperimenta diversi linguaggi e tecniche. Non ho mai operato questa distinzione. Non credo nell’artista video, credo nell’artista che fa anche un videotape, e questo fa parte del suo lavoro globale, è uno dei suoi lavori». 2

[m.g.b] Con qualche eccezione sono ancora convinta che il valore stia nel lavoro dell'artista, nell'arte, piuttosto che il tipo di supporto con cui un artista lo ha realizzato, e sono ancora convinta che il video lasci tutta la libertà possibile a chi lo usi per produrre una sua opera. Tanta è la libertà di questo tramite che ad esempio Bill Viola che lo usa come una lente tridimensionale, quasi un ologramma ruotante, una pittura precisissima, è esattamente un artista che lavora con il video, come gli altri, e non un video artista e basta, come si usa definirlo. Ci sono tanti modi per "dipingere", non scordiamoci che Jannis Kounellis si definisce "pittore" e con ragione anche se non tocca un pennello! L'arte è il risultato emozionale e visivo dell'opera.

Perché ho chiamato "antivideotape" quello di Jannis: perché, essendo questo lavoro soltanto un’opera che esprime se stessa, al di là delle possibilità del mezzo, può definirsi “antivideotape”, ma "Senza titolo" è assolutamente quello che doveva essere: un'opera di Kounellis realizzata con il solo mezzo con cui questo specifico lavoro poteva essere realizzato per “rimanere”, al contrario di una performance, quindi il video. È un bellissimo videotape, e un vero videotape! Il risultato sta nella libertà di ogni artista di esprimersi appunto senza il vincolo di sentire il mezzo video come un linguaggio che abbia le sue regole.


[c.g.s] La definizione di “anti-videotape” è tua; è contenuta nella già citata intervista di Valentina Valentini e Alessandra Cigala. Parlavi dell’opera di Kounellis riferendola - secondo me in modo piuttosto interessante - a «una concezione retoricamente “anti-videotape” […]: non ci sono né colore né azione né suono. È una lunga sequenza nella quale appare Jannis, con il volto coperto dalla maschera di Apollo e una lampada a olio in mano e immobile per mezz’ora, per tutta la durata del nastro. Si capisce che una still life perché la sua mano un po’ si muove. Ma non è una performance, è un suo lavoro “vivo” che rimane nella storia attraverso il mezzo video». 8

(mg) Sì, confermo le mie parole e aggiungo anche che
so per certezza che Kounellis spesso non ricorda di aver fatto "un videotape" ma sicuramente ricorda una sua opera realizzata a Firenze con me, in cui con la maschera di Apollo tiene una lanterna nella mano sinistra..







[c.g.s] Penso assolutamente che art/tapes/22 non sia “archeologia” della video arte, ma arte video in nuce. Così oltre a Nam June Paik e a Bruce Neuman è impossibile non pensare a Bill Viola, operatore e direttore del settore tecnico di art/tapes/22 dal 1974 al 1976. Nel corso delle attività di restauro, vedendo e rivedendo in questi mesi i suoi videotape, ci siamo chiesti come mai abbia potuto - con la piattaforma tecnologica a disposizione (quella dell’epoca intendo) - sperimentare il linguaggio video allora in via di definizione e praticare il “montaggio” [penso in particolare a Gravitational pull, girato nel 1974 negli spazi art/tapes/22] in un modo così straordinario, eccedendo la tecnica e la base tecnologica stessa del medium.


[m.g.b] Billy quando è venuto da me era in assoluto “l'allievo” migliore che ci fosse nelle università americane (aveva “studiato video” con il giovanissimo David A. Ross) in questo settore, di qui la capacità (magia?) di realizzare montaggi straordinari con equipaggiamenti minimi..spesso montavamo a mano usando un gessetto sul nastro che girava, tagliandolo/attaccandolo poi nel punto esatto! Billi ha lavorato con me in art/tapes/22 con grande passione, disciplina, capacità e creatività. Era chiarissimo fin dai primi video che ha realizzato a Firenze, che il suo non era soltanto un “mestiere” e che il video per lui non era un mezzo piuttosto di un altro, come per moltissimi altri artisti. Il video ERA LUI! Ne aveva bisogno per esprimere la bellezza che aveva (ed ha) in sé.Il perfezionismo che ha perseguito e infine raggiunto è assolutamente frutto della sua indole meditativa ed altamente spirituale: solo nell'astrazione dal sé possono raggiungere delle rarefazioni così perfette!
Un momento importante per lui, ad esempio, è stato l’incontro avvenuto un anno fa con il Dalai Lama, incontro del quale mi ha inviato una fotografia commovente: prima di lavorare ha sempre preso del tempo per meditare, se si esamina la maggior parte dei suoi lavori, i soggetti sono sempre al di sopra di una semplice temporalità, dalla nascita alla morte e oltre, l’”oltre” è sempre presente nella sua ricerca artistica, che poi riflette la sua ricerca umana.
Sono tuttora costantemente in contatto con lui, siamo legati da un qualcosa di molto speciale che va al di là dell'amicizia o dell'aver lavorato e vissuto tre anni insieme, qualcosa di molto profondo.

[c.g.s] Come ripensi il contesto di definizione di art/tapes/22 e degli altri centri di videoarte in Europa: Fernsehgalerie di Gerry Schum, lo Studio 970/ 2 di Luciano Giaccari, il Centro Video Arte di Ferrara, fondato da Lola Bonora, la galleria Il Cavallino di Venezia?

[m.g.b] Per Gerry Schum ho sempre avuto una grandissima ammirazione e trovo i lavori Land art e Identifications tra i più belli mai prodotti in questo campo fino a tutt'oggi. Con Paolo Cardazzo, della galleria del Cavallino di Venezia, ho collaborato spesso, soprattutto per i contatti con artisti dell'est europeo. È stata una delle rarissime persone che ha amato questo mezzo, e attraverso la sua partecipazione curiosa e attenta si è costruito (come anche l’industriale Luigi Rossi) una collezione invidiabile di videotape, e tuttora continua ad occuparsi con intelligenza di questa forma di arte. È un carissimo amico, oltre che l'editore del mio libro.
3 Luciano Giaccari ha fatto un importantissimo lavoro di documentazione, il suo archivio credo contenga assolutamente tutto il lavoro degli artisti comportamentisti che sono passati in quegli anni per l'Italia. Anche Lola Bonora ha prodotto e forse produce ancora, video importanti con il museo civico di Ferrara.

[c.g.s] Quali sono stati i criteri delle scelte produttive e di quelle scelte distributive?

[m.g.b] Nessun criterio preciso, alle scelte della produzione si aggiungevano via via le occasioni, le proposte per la distribuzione di opere prodotte altrove: questo avveniva soprattutto per amicizia e per stima reciproca con gli artisti e con galleristi come Leo Catelli e Ileana Sonnabend.
art/tapes/22 non ha mai avuto nessun aspetto "professionale", nessun progetto a monte, tutto si è svolto liberamente, come il respiro: via via gli artisti venivano invitati direttamente da noi, o li incontravamo in qualche parte del mondo, o ancora venivano per realizzare una mostra nelle gallerie Schema e Area e accadeva che poi lavorassero con art/tapes/22; è stato un discorso di vita, non solo di lavoro, ed è stata proprio questa “libertà” assoluta a incantare tanti artisti, a far loro prolungare il discorso di lavoro con quello, tutt’ora in molti casi esistente, di grande amicizia. Sembra strano anche a me, ora, ma magicamente è stato così! Allan Kaprow sottolineava la grande differenza tra gli studi americani dove il tecnico in camice bianco inizia a lavorare alle 10 e finisce alle 5,30, rispetto a noi che eravamo partecipi emozionalmente e fisicamente sempre, disponibili giorno e notte, una condivisione straordinaria di una importante porzione di vita.

[c.g.s] art/tapes/22 è un luogo di attraversamenti, di presenze e (mutuando la definizione da Gérad Genette) di una “pluralità operale”:
4 l’ “installazione” immobile di Daniel Buren, 5 l’ “anti-videotape” di Jannis Kounellis, l’ “Unisono” di Giulio Paolini ecc. Detto altrimenti, il videotape era parte dell’operazione espressiva che gli artisti stavano compiendo in quel periodo.

[m.g.b] Di questi amici, grandi artisti, parlo a lungo nel mio libro
: 6 le presenze loro erano costanti, tutte le estati a Santa Teresa, molti Natali a Sant'Ippolito (due luoghi a me molto cari) e sempre con reciproca e grande amicizia: tutt'ora, come dicevo prima, è così con molti di loro.


[c.g.s] Ancora una domanda sul contenuto dell’ “installazione immobile” di Buren che metteva in circuito chiuso la sua “pittura impersonale” sulla quale aveva puntato delle telecamere collegate a dei televisori di differenti grandezze non attivando la registrazione, bensì solo la trasmissione «assoluta e simultanea». 9 I televisori dunque fungevano, al contempo, da cornice e da quadro? È stata secondo te un’operazione sui limiti dell’opera pittorica o una critica del medium video?

[m.g.b] L'installazione di Daniel Buren è stata il solo "evento" di questo tipo affrontato da noi: consisteva nel rifare in onore di Gerry Schum, un lavoro già progettato per lui anni prima. 7 Ho visto tante volte lavorare Daniel per realizzare le sue opere (tre di queste nelle mie case, l’ultino per la terrazza della casa dove vivo ora, a Procida), ma quella volta il lavoro "manuale" era collettivo, tutti insieme, ed è stato molto emozionante. E’ stata anche una delle poche video installazioni dell’artista, certamente con riferimento all’incorniciatura di quadri e ai quadri stessi che altro non erano che le porzioni ritagliate da Daniel nella parete opposta ricoparta con le sue strisce!


[c.g.s] Che cosa pensi della decisione dell’ASAC di intraprendere un’attività di restauro preservativo digitale delle video opere di art/tapes/22?


[m.g.b] Penso che abbiano affrontato, forse con ritardo, un percorso doveroso e importantissimo, non tanto per "salvare" il supporto originale (che comunque in un archivio rimane come documento estremamente importante), ma per rispettarne il contenuto, l'opera degli artisti cioè, e poterlo rendere fruibile nel tempo, come è il destino delle opere d'arte, tutte.


[c.g.s] Il nastro magnetico porta con sé la sua stessa deperibilità. Ma forse, anzi quasi certamente, per quanto attiene al corpus art/tapes/22 il deterioramento del supporto (della materia) è un limite delle tecnologie video dei primi anni Settanta e non una componente prevista, programmatica dell’opera stessa. Nondimeno quella dell’intervento di restauro preservativo digitale è una scelta che dà da pensare e pone in campo metodi, pratiche, protocolli ai quali sono sottesi principi teorici (filologici, semiotici ed estetici) ed etici. È una scelta che pone molti problemi e che riguarda infatti tutta l’arte contemporanea e il cinema.
Tu sostieni che “il supporto non è l’opera” ed è un assunto che ha differenti incidenze riguardo, ad esempio, alla questione delle “copie originali”, dell’opera multipla e, soprattutto, rispetto ai modi artistici che programmaticamente non hanno manifestazione, nel senso che non coincidono con un “esito”, un “resto”, un “oggetto” o il cui contenuto non è immediatamente riconducibile alla superficie espressiva che pure gli si correla (come accade segnatamente per l’arte concettuale, ma non solo).
Non ritieni però che le pratiche del restauro preservativo pongano in evidenza il fatto che pellicola e nastro magnetico non siano soltanto supporti “indifferenti” dell’opera, ma in qualche modo anche la “materia” di cui essa si sostanzia, che è in grado di sviluppare importanti aspetti formali, aspetti “linguistici” da un grado zero, quello della “registrazione” ad un grado elevatissimo di elaborazione (come accade nelle opere di Bill Viola o in quelle diversissime di Steina e Woody Vasulka)?


[m.g.b Certamente, in molti casi, come in Nam Jun Paik, nei Vasulka e qualche volta in Bill Viola, il mezzo, lo strumento e la sua sofisticazione sono l’unico modo per realizzare “proprio quell’opera”, ma in Europa, negli anni di art/tapes/22, il supporto non ha dato alcun aiuto agli artisti. Per quanto riguarda le opere “originali” rispetto alle “copie”, al di là della legittimità della valorizzazione del "feticcio", della scelta di una persona di acquistare una "prima edizione" di un libro che ama, anche se fatiscente, illeggibile e quindi ridotto a mero oggetto di venerazione, invece di ritenere l'opera esistere nelle parole... «Guido io vorrei che tu Lapo ed io .... » - io prendo come sai una certa distanza da questo punto di vista, anche perché comunque ritengo che "il feticcio" consista soprattutto in una operazione destinata a mitizzare un oggetto come tale, esprima quindi un atteggiamento un po' maniacale come è sempre quello del collezionista, “linguisticamente” sbagliato per l'espressione dell'arte relativa alla produzione con il videotape. Ogni opera prodotta in video, in film, foto o altro realizzato con un "mezzo tecnologico", per rimanere nella relativa eternità che vogliamo sempre garantire alle opere che amiamo, necessiterà sempre di aggiornamenti, riversamenti, via via che la tecnologia avanzerà, cambierà, si semplificherà. Questo non toglie niente all'opera in sé ma solo al suo involucro. Attenzione a non fare una lettura metonimica dell'opera video, una parte per il tutto, scambiando il supporto per l'opera in sé. La video arte è frattalica, orizzontale, destinata a spargersi ovunque: se si ipotizza come mezzo ottimale di divulgazione il web, ad esempio, ecco che finalmente l'involucro, il possesso, l'originale spariscono, e con loro finiscono i malintesi che rischiano di ricondurre il giudizio sulla video arte esattamente ai parametri di altre opere d'arte, l'oggettificazione, i multipli, l'opera unica, quindi il collezionismo eccetera.

[c.g.s] Quali sono i motivi che hanno fatto sì che in art/tapes/22, ad eccezione degli interventi di Giuseppe Chiari, Bill Viola e dei Vasulka, l’incidenza degli aspetti tecnologici e tecnici sul linguaggio video non si attestasse che a un “grado zero”, quello della registrazione?

[m.g.b] Mi ripeto forse, ma lo devo fare per rispondere a questa domanda: negli anni Settanta le risorse tecnologiche erano primitive e inadeguate rispetto ad ora, mi piace però ripetere che secondo me, comunque, per l'espressione artistica che in quel periodo la video arte rappresentava, il supporto non significasse altro che un mezzo per realizzare un’opera e non il linguaggio dell’opera stessa (almeno per quanto riguarda l'Europa, per gli Stati Uniti il discorso è opposto fin da allora).

[c.g.s] Perché il videotape in Italia, in quegli anni, è stato “mezzo” e non “linguaggio”?

[m.g.b.] Questa teoria del mezzo che non è linguaggio è soprattutto una teoria mia e non genericamente europea: in Italia e in Europa, se si pensa ai lavori realizzati da Gerry Schum, il fatto che la tecnologia non fosse sofisticata e che non ci fossero “scuole” per questa nuova disciplina (in USA ad esempio la Long Beach University aveva come docente David A. Ross e sfornava giovani artisti come Bill Viola!) ha sicuramente contribuito a lasciare l'artista più libero di esprimersi per fare, sia pure con questo mezzo “nuovo” soltanto un “suo lavoro”, come gli altri: qualcuno su carta, altri su tela, altri con il video, altri con la performance.

[m.i] Realizzare un’opera d’arte su tela, piuttosto che su carta o video costituisce un’enorme differenza. Esprimere un concetto di fronte ad una videocamera è diverso rispetto all’esprimerlo su tela o su carta (o qualsiasi altro supporto), presuppone un linguaggio diverso, che va necessariamente costruito (nel caso in cui esso non esista), o adattato (nel caso in cui si differenzi da qualsiasi altro linguaggio preesistente) se si vuole che il messaggio contenuto nell’opera giunga a destinazione. Forse, come tu dici, il video non è un linguaggio, ma converrai che non è neppure un semplice mezzo, ma è strumento di realizzazione e di creazione e trasmissione.
Scusa se insisto, ma gli anni Sessanta e Settanta hanno costituito sul piano culturale un particolare periodo di “rilancio” nel modo di fare, vedere e concepire l’arte (che tu stessa, nel caso di art/tapes/ 22, hai più volte definito «il Nuovo Rinascimento fiorentino»Winking. Il cosiddetto
cinema sperimentale (o, come andava definendosi in USA e in Europa, underground) ha costituito una sorta di rivoluzione nel modo di concepire e soprattutto di esprimere l’arte, mediante un “intervento sul linguaggio”. La riflessione (sul linguaggio) che n’è scaturita veniva a costituire il punto focale di una più ampia riflessione sull’arte, in un continuo scambio alla pari d’idee, risorse e concetti. Si realizzarono così incursioni in campo linguistico-letterario a testimonianza della tendenza dell’ambiente artistico di cogliere dal mondo della poesia e della scrittura, e dalla struttura che le regola, importanti segnali di una svolta radicale, che si realizza attraverso la ricerca e la riflessione sul linguaggio stesso (e che si sarebbe poi propagata in tutti gli altri ambiti del sapere e dell’arte). Roland Barthes asseriva che “essendo tutto il linguaggio la deriva da un campo specifico ad un altro” questo implicava “una verifica costante e ogni volta riavviata della medesima questione: non vi è neutralità né oggettività nel linguaggio, e le sue forme e modi di strutturarsi e articolarsi vanno costantemente verificati e ripensati alla luce delle trasformazioni del contesto”. Tali “verifiche” e sperimentazioni sono avvenute sia sul piano concettuale (nell’idea dell’opera stessa) sia sul piano tecnico (montaggio, ripresa, supporti ecc.). Ora, il cinema sperimentale ha fondato le sue basi su una sorta di “protesta” verso gli stilemi istituzionalizzati della cultura dominante, nella mai risolta questione della definizione di arte e della definibilità di avanguardia e sperimentalismo, della definizione di non-esteticità, o meglio l’anti-esteticità che poneva, la questione della possibilità di poter usare qualsiasi cosa per fare arte. Questa riflessione implica che il “mezzo” sia non solo un semplice supporto, ma la base stessa su cui poggia l’opera e che costringe continuamente a “rileggere” e “re-interpretare” i concetti di arte e del linguaggio utilizzati. Si potrebbe dire che il mezzo modifichi il linguaggio, o comunque richieda un nuovo livello enunciativo ed interpretativo. Questo, a tuo avviso, non implica che il mezzo (il video nel nostro caso), costruisca e/o costituisca il linguaggio su cui si fonda l’opera? Si potrebbe, a tuo parere, affermare che il video non è linguaggio (ma fino a che punto o in quale misura non lo è?), ma che lo costruisce?


[m.g.b] Nello stesso modo in cui la tela o la creta non sono un linguaggio, cioè sono i mezzi con cui ogni artista si esprime in modo diverso (Rodin, Brancusi, Ricasso, Warhol&hellipWinking e sempre e solo rimanendo unico e se stesso! E’ certo che al di là di questo concetto ogni “mezzo” ha una sua specificità tattile, nel nostro caso direi virtuale, ma l’opera d’arte non si definisce in questo particolare, è al di là di ogni definizione che, oltre ad identificarla (scultura, pittura, video) spesso la imprigiona.


[c.g.s] Non si dimentichi, tuttavia, che la registrazione, che è il grado zero del linguaggio video, ha prodotto un’ampia intersezione tra la video arte e la Performance art; ha svolto una funzione fondamentale per lo studium del “corpo proprio”, del gesto, della performance (penso a Bruce Nauman, al riflessione sul “feed-back con se stessi” di Vito Acconci, ma anche agli “art/tapes/22” di Bill Viola, al “primo” Bill Viola).
Il corpo in immagine dell’artista (i vari livelli della performance “di qua” e “al di là” del dispositivo di ripresa) assume una valenza differente dalla corporeità in quanto “figura” di tanto cinema sperimentale?

[m.g.b] Anche qui mi sento di ripetere un po’ quello che ho detto prima, secondo me la performance è stata una forma d'arte che si realizzava usando soprattutto il proprio corpo, ma che fosse in una galleria o attraverso un video, “al di qua” o “al di là” della telecamera, il senso del lavoro rimaneva intatto, solo la memoria del lavoro viene garantita dal mezzo video, piuttosto che dalla staticità delle fotografie che lo documentano. Qualche volta il mezzo tecnico ha sicuramente dato modo di ottenere tagli e risultati che dal vivo sarebbe stato impossibile controllare, ma questo è un aspetto “esteriore” all’opera stessa. Ma il video non è nemmeno solo performance, può essere davvero tutto ed altro.

[m.i] Un caso esemplare di relazione tra la forma videotape e la Performance art è dato da Florence Tape: clothing, walking, lifting, learing (1974) di Douglas Davis, opera “trasmessa” da Kassel/“Documenta” il 24 giugno 1974. Il videotape di Davis era un “materiale” della performance o la performance stessa?

[m.g.b] Il video ERA la performance stessa: l'artista aveva usato il mezzo video perché solo in questo modo ha potuto raggiungere il “livello” che si era prefisso. Il video Florence tape mostrato a Documenta non era una documentazione, né materiale per una performance live, ma LA performance stessa.

[c.g.s] Il videotape proprio nella sua dimensione tecnologica ha determinato una nuova forma di “autorialità” (una “pluri-autorialità&rdquoWinking che ha messo in campo una relazione sottile tra gli artisti e i tecnici affatto diversa da quella “cinematografica” e forse differente rispetto agli ambiti sia traditi quali gli atelier sia inediti quali la Factory warholiana.

[m.i] Nei videotape realizzati l’apporto di tecnici quali Alberto Pirelli, Carmine Fornari, Raffaele Corazziari, Bill Viola, Andrea Giorgi e altri è sicuramente risultato indispensabile. Come si sono intrecciate in termini d’autorialità i rapporti tra l’artista e il tecnico. Quanto di un’opera appartiene all’uno e quanto all’altro? Si può parlare dunque di “pluri-autorialità”?

[m.g.b]
Alberto Pirelli, che è stato con Carmine Fornari (Nuccio) fin dai primi inizi il tecnico, soprattutto audio, di art/tapes/22: è stato con loro due e naturalmente con Giancarlo che ho iniziato la grande avventura.
La collaborazione che abbiamo vissuto noi di art/tapes/22 è stata del tutto spontanea, al di là di ogni canone “professionale”, artisti e tecnici lavoravano davvero INSIEME, senza settorialità: questo non toglie che l’artista sapeva bene quello che voleva, ma spesso non sapeva come ottenerlo, e di qui la complementarietà assoluta con i tecnici.
Quando Vito ha fatto i cinque lavori con art/tapes/22 aveva costantemente il supporto, oltre che di Alberto Pirelli, di Lello Corazziari, che per un mese ha vissuto in simbiosi con lui: è stato come un prolungamento del suo occhio, del suo braccio. Quasi sempre invece Acconci si pone davanti a una telecamera fissa e realizza così i suoi videotape.


[c.g.s] Risulta interessante notare come nelle opere video di art/tapes/22 si tracci una complessa relazione concettuale tra “artista” e “autore”, anzi si può precisare una sorta di endiadi problematica “artista-autore”. Gino De Dominicis, ad esempio, che sembra sperimentare una poetica quasi artaudiana dell’opera (penso ai saggi di Jacques Derrida su Antonin Artaud e l’opera in quanto “scoria”, traccia persecutoria).
10
Videotape è un’opera che parte da un’interrogazione portata sul fatto che la performer chiede di vedere un videotape di De Dominicis e che il videotape che virtualmente le viene mostrato consiste però de facto nel Videotape di De Dominicis che si viene realizzando “a vista” sotto gli occhi dello spettatore, e che solo lo spettatore vede, continuamente interpellato dalla perfomer [cfr.]. Gino De Dominicis artista, nel fare Videotape, “mette in testo”, in chiave metalinguistica - [m.i] in una sorta di gioco di riflessi tra specchi - e criticamente De Dominicis autore («De Dominicis’ tape»Winking. Egli insiste propriamente sul doppio: l’artista e l’autore: l’artifex (che nell’etimo nomina il fare; comp. di ars, artis e -fex, tema di nome d’agente di fac
re), ma anche, nello stesso tempo, l’autore (nozione di formazione più recente, identitaria e stilistica, “firma&rdquoWinking.

[m.g.b] Non capisco bene la domanda, anzitutto il video di Gino si chiama “videotape” e non “De Dominicis’ tape: su questo nastro è nata una strana confusione, le parole pronunciate di fronte ad uno schermo che non mostra altro che drops out, sono pronunciate nella matrice prodotta da art/tapes/22 solo e assolutamente in italiano (e non in inglese come appare dall’analisi fatta da voi), infatti a voce femminile chiede: - ma è questo il video tape di e Dominicis?- E, fuori campo, la stressa voce dell’artista risponde seccamente un –sì—A questo punto la donna di spalle aggiunge: - ma, io non vedo niente,- (e forse qualcos’altro, non vedo questo tape da quando ho donato le matrici all’ASAC, nel 1978, e da allora non ho mai avuto da loro una sola copia dei lavori, nonostante Wladimiro Dorigo mi avesse garantito, come era naturale, di farmeli avere tutti! Ho solo alcune copie che avevo nello studio al momento della donazione, ma questo e molti altri no), quindi si alza con rumore di sedia smossa, se ne va e dopo poco il monitor pieno di linee scomposte si spenge. Gino era un artista che aveva una grande, intelligente ironia e nel suo uso con il video (vedi anche i lavori fatti per Gerry Schum) 11 questa ironia un po’ magica viene fuori. Ma ogni artista è assolutamente un artista-autore rispetto al suo lavoro, qualunque sia il mezzo che usa per realizzarlo. Credo che poi la lettura di ogni opera, da parte di studiosi e storici, possa estrapolarvi riferimenti e citazioni che in realtà nella spontaneità dell’opera (in questo caso assolutamente ironica) l’artista non aveva assolutamente messo, almeno non coscientemente. Qui si tratta di un paradosso più che di un rispecchiamento, e anche della dichiarazione che “video” è tutto ciò che si muove nello schermo televisivo, nel monitor, e che non deve necessariamente essere “leggibile” dai fruitori.

[m.i]
Richiamiamo per un attimo gli specchi: il monitor diventa una sorta di specchio in cui l’artista riflette se stesso, il mezzo e l’opera. Ciò esprime una auto-riflessività del medium, una sorta di narcisismo o semplicemente uno specchio attraverso il quale far emergere un nuovo modo di vedere, percepire, comprendere e analizzare il mondo?


[m.g.b] Sì, nella maggior parte dei casi (Rilke, Acconci, ad sempio) il monitor è assolutamente uno specchio attraverso il quale fare emergere l’opera, ma, al contrario dello specchio, il monitor è fedele, non capovolge destra e sinistra, è davvero “te”.
“Il monitor come specchio”: è indiscutibile che lavorare con il video diventi una disciplina narcisistica, ma più che autoriflessiva credo sia quasi sempre autoreferenziale.
Questa è una riflessione sul processo del lavoro dell’artista con il video, ma nel caso di Gino De Dominicis, ad esempio, e per la prima volta nei suoi lavori con questo mezzo (vedi quelli fatti con Schum), l’artista non vi appare, nessun narcisismo e nessun rispecchiamento, e questo è naturalmente intenzionale, un confondere le idee, sbalordire rispetto alle attese di chi si aspetti un lavoro più simile a quelli precedenti (Gino De Dominicis vi guarda, Tentativo di volo, Tentativo di produrre quadrati gettando un sasso nell’acqua: quest’ultimo non è il titolo corretto). Prima di arrivare a questo video, come dico nel mio libro, ne abbiamo provati molti altri, tutti assurdi e tutti impregnati di grande e geniale ironia.

[c.g.s] Ma non pensate che, forse, oltre la dimensione narcisista (piuttosto investigata da Rosalind Krauss) 12 vi sia, da un lato, una pratica marcatamente performativa che si precisa in video (il “feedback con se stessi” di cui parla magistralmente Vito Acconci, il lavoro sul soggetto enunciazionale di Taka Ito Iimura, le deformazioni espressive di Arnulf Rainer ecc.) e, dall’altro lato, si tracci un qualche legame strutturale tra “videotape” e “arte concettuale”?

[m.g.b] Qui mi sembra che si stia analizzando il mezzo video e non l’opera prodotta: certo, il mezzo video è questo e quello, e anche molto altro, un contenitore aperto alla creatività singolare di ogni artista, quindi può essere pratica performativa (Abramovic), deformativa (specchiante, Rainer) enunciativa (tautologica, Agnetti) o semplicemente supporto per un “quadro della mente” (Kounellis), per questo ribadisco che l’opera non è il mezzo e il mezzo non è l’opera.
Avrei voluto lavorare anche con Joseph Kosuth e con altri artisti concettuali, ma non è accaduto, solo Vincenzo Agnetti ha fatto con noi un video (il primo rizzato da art/tapes/22) "concettuale" [Documentario N. 2, 1973]
in cui usa numeri invece di parole. D'altronde il video è assolutamente un mezzo duttile e libero. Ad esempio, io sono ora una grande ammiratrice di alcuni videoclip musicali e di alcuni commercials... mi ripeto ma pert me il video è un mezzo e come tale può contenere tutto. Certo che l'uso di questo mezzo, via via che la tecnologia si è fatta più sofisticata, ha sempre di più inciso sul lavoro stesso: un esempio è il lavoro di Bill Viola: non potrebbe che essere realizzato con il video, ma il risultato è comunque la perfezione di un dipinto manierista.

[m.i] Una domanda sui destinatari, sul ruolo spettatoriale: quali erano gli spettatori “ideali” (e non)? Come venivano presentati i videotape presso le gallerie, i musei, le fiere (Art Basel ecc.)?

(mgb) Gli spettatori? Alle varie fiere d’arte, nei rari musei, tutti i fruitori di quegli spazi, visitatori, galleristi, amanti dell’arte; nello studio fiorentino invece il mercoledì sera le porte erano aperte agli studenti universitari, ai rarissimi amanti dell’arte contemporanea.-.
Gli allestimenti all’interno del nostro studio per produrre i video (se non si parli dell’environnement di Daniel Buren che è stato “altro” dalla produzione dei video), non erano mai programmati, se non in casi particolari (Douglas Davis, Allan Kaprow ad esempio), ma “cercati insieme”, “inventati” via via, fuori orario, durante nottate piene di energie e di creatività, buon vino, discussioni e tentativi, fino a trovare esattamente quel punto magico che era già, anche se forse inconsciamente, nella mente dell’artista.
Gli allestimenti delle mostre o fire d’arte? anche in queste occasioni erano molto semplici, uno, due forse tre monitor all’inizio bianco e nero, qualcuno (spesso io stessa o Alberto Pirelli) di noi metteva via le cassette nel registratore. Un po’ più sofisticato forse l’allestimento dello stand che ho condiviso con Leo Castelli, dove vincemmo il premio “nuove tendenze”, ma sempre molto elementare, pulito, scarno come era necessariamente la cultura di allora-
Ma tutto questo è accaduto solo intorno al 1974, un boom di mostre di video arte, tutte insieme (Bruxelles, Parigi, Basilea, Colonia), poi più niente per anni. Per l'Europa si trattava di un "fenomeno" spesso discutibile (arte o non arte?): oltre alle videocassette venivano allestite delle videoinstallazioni bellissime (Nam June Paik, Peter Campus, Dan Graham, Ira Schneider ecc) e l'atmosfera era un po’ quella permeata di curiosità delle prime trasmissioni televisive.


. [c.g.s] Che cosa ha significato l’esperienza della mostra itinerante “Americans in Florence, Europeans in Florence” (Europe-USA 1974)?

[m.g.b] Soprattutto questa mostra ha dimostrato come il supporto NON SIA l’opera, il fatto che contemporaneamente in diversi musei sparsi nel mondo fosse possibile mostrare le stesse opere di artisti (non multipli, ma opere originali) ha sottolineato che è il MESSAGGIO ad essere l’opera (come nella musica, non lo spartito ma la musica che si ascolta) e non il supporto che lo contiene.

[c.g.s] Che cosa pensi del concetto di videotape come “opera unica”, “originale”?

[m.g.b] Con Vito Acconci e con Charlemagne Palestine abbiamo previsto cinque video numerati e firmati (su foto presa dal video) che avessero un valore maggiore delle altre eventuali copie. Forse a suo tempo ne abbiamo vendute una o due, ma questo concetto è assolutamente errato a mio parere: di nuovo si fa del supporto (la cassetta, il DVD o altro) un feticcio, un “oggetto" mercificabile, mentre l'essenza della videoarte è in ciò che si vede, che si percepisce, non che si tocca. La videoarte non é una serie di multipli, e nemmeno di copie.
Il problema del copy right è insolubile: nell'era della masterizzazione è utopistico pensare che certi DVD (o altri supporti) possano essere davvero protetti. È anche per questo che non si dovrebbe dare troppa importanza al video come "oggetto", tra l'altro l'opera realizzata con il mezzo elettronico dovrebbe per sua natura essere visibile soprattutto su larga scala, attraverso la televisione (Gerry Schum aveva fatto la cosa giusta) e quindi, non come un "oggetto" vendibile, il fatto che molti usufruiscano di un'opera d'arte, infine, dovrebbe essere assolutamente una cosa da augurarsi! È il concetto che dovrebbe rinnovarsi, è assurdo continuare a vedere anche nella video arte un "oggetto" da tenere sul tavolo come una scultura.

[c.g.s] Assolutamente, ma non è solo un fatto di copy right. Il problema ne convoca però un altro, quello della dimensione significante dell’opera elettronica, dell’opera a carattere tecnologico. Achille Bonito Oliva dice in modo illuminate che l’artista (l’autore) «ha i suoi tempi» vive, muore, mentre «l’opera gioca sulla durata», ma «la durata è in qualche modo garantita non dal significato, ma dal significante. Il significato è storico, è contingente, viene riassorbito, masticato, eliminato superato (&hellipWinking»; «il significante è proprio la possibilità di fermarsi ancora una volta di fronte a un’opera di fronte alla Gioconda di Leonardo, davanti a questo enigma che in ogni caso rappresenta, l’androgina, il maschile e il femminile secondo i momenti culturali, le mode, le sensibilità del tempo. Ecco l’importanza del significante, è questa capacità di slittare». 13 Il “significante” è la riserva del senso, ciò che rende possibile che esso possa essere ri-attualizzato ciò che fa sì che ci si possa fermare ancora e ancora davanti a un’opera.
E il “significante” è posta in gioco per qualsiasi operazione di restauro, anche per quella semplicemente preservativa, anche per le arti tecnologiche. La pellicola e il nastro magnetico pongono in evidenza come la “materia” di cui si sostanzia l’opera ne definisca la forma (o quantomeno importanti aspetti formali). Detto altrimenti, il supporto presentazionale, ciò che consente la manifestazione espressiva (audiovisiva) - “il significante” - dell’opera (del videotape) è anche materia costitutiva. Ed è propriamente qui che agiscono le pratiche di restauro. Così che per saper “leggere”, interpretare i disturbi del segnale, l’omogeneità segnale-rumore, le lacune, le discontinuità ravvisate, nelle migrazioni da supporto a supporto (1 pollice, 1/2 pollice, U-matic, DVD ecc.) è necessario mettere in campo una serie di competenze che debbono tenere conto della singolarità di ogni opera, di ogni videotape, comportata dall’unicità dell’azione artistica, dal pensiero che vi è implicato e dispiegato, dalle tecniche di esecuzione, ma anche della conoscenza dei materiali “originali” di supporto e di quelli di migrazione, della piattaforma tecnologica d’epoca (le “macchine” stesse sono dunque un documento storico) e del contesto di ricezione spettatoriale.

[m.g.b] Ho già detto che, al di là della scarsa importanza che io do al supporto rispetto all’opera in sé, sono d’accordo che proprio nel supporto stia la possibilità di leggere l’opera e che quindi questo sia di grande importanza, qualunque standard rappresenti, ma non facciamo del “luddismo” né in positivo né in negativo identificando la macchina, il supporto con il soggetto di cui stiamo parlando!

[m.i] Nel 1977 si “conclude” l’avventura di art/tapes/22 con la cessione all’ASAC degli archivi della società e la chiusura della sede di via Ricasoli 22. Oltre ai ricordi e alle emozioni di questa esperienza unica, che cosa resta (o è rintracciabile) oggi dell’esperienza di art/tapes/22, nelle opere degli autori che vi hanno preso parte? “Dopo art/tapes/22”, cosa si può trovare di art/taspes/22 nell’arte contemporanea? L’eredità di art/taspes/22 è stata raccolta e portata avanti?

[m.g.b] Prima di art/tapes/22: Bruce Neuman, Gerry Schum, Nam June Paik, Dan Graham, Campus, Ira Schneider, Wolf Vostell e tanti tanti altri importantissimi lavori. “Dopo”? Credo che siano state realizzate delle magnifiche opere con questo mezzo, mi pregusto già l'esplorazione capillare della produzione contemporanea che sto per affrontare per realizzare la grande rassegna di video arte che stiamo progettando con Valentina Valentini della quale per ora non voglio parlare, anche perché è solo un sogno un po’ utopistico data la situazione attuale e il monopolio dei fondi destinati alla cultura e quindi alle precedenze destinate dai curatori dei grandi eventi nei musei.

[c.g.s] Pensi che le cause che hanno "motivato" e indotto la cessione del corpus art/tapes/22 all’ASAC siano ancora presenti nel sistema dell’arte contemporanea?

[m.g.b] Si è trattato di una ideologia molto legata alla situazione storico-etico-politica di quegli anni (io la penso ancora cosìWinking che privilegiava assolutamente l'importanza del lavoro dell'artista e anche della produzione, quindi il non spicciolare un percorso di vita, di entusiasmo, di lavoro comune, nel caso di art/tapes/22, mantenendo "insieme" un corpus che nella sua specifica diversità rimane comunque un tutt'unico, un'importante parte di storia dell'arte scritta dagli artisti che hanno lavorato con me, piuttosto che privilegiare una visione speculativa che non abbiamo nemmeno mai preso in considerazione. Io e Giancarlo, mio marito, non potevamo più sostenere in prima persona l’onere immenso della produzione dei video che era stata tutta e solo sulle nostre spalle: le strutture fiorentine sono rimaste sorde ad ogni appello, non avendo forse compreso l’importanza del lavoro svolto e in fieri, alla Biennale invece c’erano persone come Carlo Ripa di Meana, Germano Celant, Vittorio Gregotti, Wladimiro Dorigo, e Ronconi stesso che era entusiasta dei video di art/tapes/22, tutti amici di grandi qualità intellettuali e lungimiranti!

[m.i] Dal tuo punto di osservazione attuale, quali percorsi sembra intraprendere la videoarte contemporanea?

[m.g.b] Un percorso frattalico libero, si va incontro ad una nuova estetica più lieve e orizzontale, ed il video con la sua velocità e la sua legittima divulgazione attraverso il web sarà una scorciatoia ormai indispensabile per esprimersi, in molti settori della nuova cultura.


[c.g.s] Ma art/tapes/22 è ancora nel futuro. Il restauro preservativo del corpus art/tapes/22 ha consentito di rendere nuovamente “visibili” i videotape limitando l’evoluzione degenerativa della “materia”, del nastro magnetico, dei master e/o delle copie dei videotape che restituendo nuovamente la loro trasmissibilità ne ha definito non solo l’aspetto memoriale (in quanto documenti storici), ma anche ne ha riattualizzata l’esistenza stessa (in quanto opere).
Che cosa è possibile aggiungere a questa nuova attualità? Che cosa è possibile vedere o ri-vedere dell’arte contemporanea attraverso questi videotape d’artista?

[m.g.b] La storia di una grande, libera avventura le cui tracce sono con grande evidenza delle bellissime opere d’arte.




esperienza/conoscenza: alienazione o nuova era?

L'informazione così veloce e allargata, così geograficamente globale, sembra non apportare più nessuna esperienza/conoscenza, come se le cose accadessero come non assimilabili, comprensibili (assumibili nel profondo) e quindi con il rischio di rimanere soltanto "storie" commestibili, ma sempre esperite da altri, senza indicazioni per l'uso per poterne cogliere la verità, storie soltanto al livello di veridicità. Lo spazio, inteso qui come sosta riflessiva, é in effetti espropriato dall'avvento di una nuova dimensione fisica: un tempo, l'attuale, storicamente intermediario tra l'ieri ed il domani, che scorre di pari passo alle immagini virtuali che si susseguono, ci inseguono e ci perseguitano senza lasciare posto alla riflessione. Questo nuovo spessore del tempo tende a fare evaporare lo spazio, sia fisico che metafisico. Nella cultura così detta "umanista", il pensiero creativo e formativo ha sempre presupposto un luogo interiore dove fosse possibile la riflessione e quindi l'acquisizione dell'esperienza/conoscenza che, formata dal vissuto individuale (inteso come ricezione, reazione, assimilazione relativa al sèWinking, si consolidava attraverso il personale confronto con quanto sperimentato "ora" e "intorno". Ogni informazione verbale e/o visiva ha dovuto proporsi come classificabile, con una sua specifica qualità, contenere in sé il valore che ne permettesse il collocamento come elemento accrescitivo e conoscitivo nel labirinto individuale dell'esperienza, per non rimanere soltanto un "notizia qualunque". Questo importante confronto con la realtà, tarato dalla personale esperienza/conoscenza (la propria cultura quindi), sembra ora venire sottratto dall'attrazione ipnotica delle immagini che scorrono continuamente, facendo evaporare, con l'accumulo che viene proposto/imposto, l'eventuale spessore, lasciandole quindi solo al livello di informazione. La velocità con cui le queste informazioni appaiono e scompaiono, le colloca quindi come un rumore di fondo a un niente: spogliate dal valore tangibile di "realtà", la loro verifica risulta alienata dalla possibilità di venire confrontata con l'io di ognuno, "condivisa", assimilata e trasformata infine in esperienza/conoscenza. Il risultato è un'omologazione generale di comportamento, uno standard di persone molto simili tra loro per mascheramento, aspettative e reazioni agli stimoli della vita.
Sembra che, senza il confronto tra ciò che accade e le esperienze personali, non possa esistere nessuna conoscenza e che, senza la conoscenza (con valenza sempre individuale) non possa esistere la personalità, il pensiero singolare: alla fine é la "persona" come modello unico che sembra non esistere più. La "persona" ci appare ora l'attore/comparsa di un teatro caotico e ripetitivo al quale sia lasciato solo lo spazio per immagazzinare le notizie degli eventi che, divenendo in tal modo virtuali, non possano venire elaborati, metabolizzati, adattati alle necessità di ognuno. E' come se venisse a mancare, quindi, l'individuo. Una vita senza luoghi per le scelte, una realtà in cui ogni notizia comunicata per immagini può solo venire ingoiata frettolosamente ed espulsa altrettanto rapidamente per fare continuamente posto ad altre immagini che non danno strumenti per elaborarle, sembra togliere quello spessore di riflessività che, "rispecchiando il se", ha sempre permesso all'informazione di divenire esperienza/conoscenza e di formare così la personalità/persona.
Alienazione pura o un nuovo genere umano?
La necessità di esorcizzare l'ansia di questo mutamento preannunciato, genetico/storico, la paura di dissolverci come individui in un tutto indistinto, apre alla tentazione di credere di essere invece sulla soglia di una radicale rivoluzione culturale, dove l'orizzontalità/superficie che sta soppiantando la verticalità/profondo sarebbe soltanto un punto di vista strabico rispetto a quanto perseguito nell'ultimo millennio ma che in realtà, proprio per l'estraneamento dal sè, prometterebbe una visione meno egocentrata che darebbe alla Conoscenza una valenza maggiormente legata alla quantità che alla qualità e che forse proprio a causa della somma degli accadimenti esponenzialmente crescente, instaurerebbe la necessità di una navigazione a vista sulla cresta dell'immenso magma di fatti con i quali i mass media ci sommergono, uno scivolare sopra le cose, forse anche una pulsione a rinunciare alla individuale maniacalità della specializzazione. La nuova forma del sapere non si avvarrebbe più, in tal modo, dell'esperienza personale, che scomparirebbe del tutto, ma soltanto di una esperienza mediatica e "altrui", virtuale e alienata dalle emozioni, un accomunamento imposto da una ipotetica nuova pratica di vita che cancellerebbe ogni dimensione colloquiale ma che, per compensazione, permetterebbe la fruizione di un sapere condiviso (parademocratico quindi) al quale accedere tutti, in qualsiasi momento, una sorta di omogenizzazione della conoscenza e della coscienza che, non usufruendo più delle emozioni private, segnerebbe sicuramente anche la fine della poesia, intesa come metafora delle sensibilità individuali. Sarebbe una società assolutamente sintetica, nella quale l'informazione leggera e globale alienerebbe gli esseri umani dalle responsabilità di testimoniare la propria individualità, quindi dalle scelte: non più una direzione ma mille e una, mutevoli, volatili, imposte, intercambiabili. Saremmo in un mondo dilatato a tal punto da divenire diradato, liso nel suo stesso ordito, quindi trasparente e permeabile al tutto, una presunta nuova civiltà dove il meno sarebbe necessariamente il più.
Ma questo non è e non può essere realmente ciò che ci attende, né può essere o divenire la futura storia dell'umanità.
Cerchiamo di non fare quindi una confusione tra il sapere ancora possibile e il sapere veicolato dai media, tra l'esperienza possibile e la modalità di fruizione della cultura mediatica di massa, lasciamo una porta aperta al seme dell' individualità: forse esiste ancora una globalizzazione delle idee, ma anche una globalizzazione "buona", veicolata dagli scambi umani reali, dalla solidarietà, dalla reale curiosità, anche se questo può apparire un fenomeno assolutamente minore e trascurabile rispetto alla globalizzazione negativa e omogeneizzante che tracima tutto e che, delle culture particolari, dei saperi particolari, fa sopravvivere solo ciò che è esportabile e dunque solo gli aspetti banali, e anche se é proprio quest'ultima ad essere perfettamente compatibile, anzi ne discende direttamente, con un sistema di tipo oligarchico in cui piccole minoranze (detentrici di enormi strumenti di potere economico, politico, culturale) di fatto decidono per gli altri.
E' quindi urgente mantenere ben distinte: da una parte l'ansia di mantenere a tutti i costi una identità (ansia legittima in un mondo che annulla la persona), anche contentandosi di un eventuale modello riduttivo che si confonda con i flussi mediatici, partecipando passivamente alla dimensione globale che abbiamo chiamato "nuova cultura", e dall'altra invece credere fortemente nell'importanza di comprendere quali sono le nostre radici culturali, quindi trasmetterle costantemente, comunicarle, mantenerle tenacemente vive e vivaci nei pochi spazi individuali che ci sono ancora concessi: l'esempio, il confronto diretto con l'immediato altro, la profonda e inalienabile libertà del discernimento e quindi delle scelte, a cominciare da quelle piccole e quotidiane, ed essere assolutamente consapevoli che questa sia la sola vera strada per poter mantenere una ragione lucida e per non aver paura, ora si, di perdere se stessi nel confronto con l'altro e con l'altrove.

estraneità

Viviamo un mondo spersonalizzato dove la singola persona non esiste più, ma solo i fatti, i numeri, le tragedie, i corpi, tutto ad uso della vista, tutto virtuale, senza partecipazione emotiva, senza rispetto, senza nomi, senza storie vissute singolarmente, 30 morti, otto grandi seni perfetti, ben riempiti dal silicone (ma cosa importa in un mondo dove la forma omologata ha cancellato il concetto di realtà e quindi di vera bellezza?), otto glutei roteanti, 300 milioni di affamati, 170 straziati da una bomba, 4 kamikaze...l'uragano ha portato alla morte 150 persone..ma CHI? persone che non sono un "io", quindi non sono soggetti, non come "il me", ma numeri, apparenze, immagini (della tv), la stessa contemporaneità con l'evento, quindi lo spettacolo, l'informazione in diretta, rende sempre di più la vita egocentrata e ognuno di noi, spettatore assolutamente intoccabile, preservato, quindi al di sopra, quindi semidio, è protagonista unico della visione di un grande spettacolo altrove ed intorno, mai QUI, tanto globale da abbracciare tutti i paesi che divengono vicini, reali e immaginari insieme, ed anche oltre: l'uomo sulla luna era una storia di fantascienza, "l'io" non c'era, né c'é sapore nelle immagini di cibi pubblicizzati, né alcun "io" nelle tragedie di fame, di violenza, di delitti sessuali che accadono solo su uno schermo: tutto diventa puro spettacolo, quindi comunque paradossalmente intrattenimento, e quindi divertimento nel senso di distrazione -estraneazione. E' l'occhio ad essere divenuto l'organo principale che ha soppiantato anche l'anima, le emozioni, l'intuizione, i sapori, i profumi, i fetori, la qualità tattile delle cose, la vischiosità del sangue che non sporca, niente fa più paura e quindi diventa inutile anche l'astuzia (intelligenza) di difendersi da qualcosa che non é mai reale, mai accanto a noi, mai minacciosa, un qualcosa che accade sempre ad "altri", altrove ed é quindi sempre solo spettacolare e spersonalizzata, disanimata. I ragazzi imparano questa distanza che cancella la compassione, l'amore, già dai videogiochi, la televisione completa l'estraneamento completo dalla vita vissuta, il concetto di realtà rimane quello minuscolo delle proprie soddisfazioni, sempre realizzate con minori attese, minori pretese, perché già colmate da vite di altri (le soap operas), amori di altri, case brutte-lussuose vissute attraverso altri, un appagamento virtuale che procura una falsa e sempre minore adrenalina indotta e una sempre minore necessità e capacità di ricevere e dare amore. E' un mondo di esseri assolutamente soli, assolutamente espropriati dal pensiero e dai desideri, un mondo in cui accade una trasmigrazione virtuale di ogni persona (personalitàWinking in un'esistenza perfetta capace di dare tutto a tutti: togliendo la coscienza dell'altro, il sè diviene autonomo, estraneo, alieno e quindi "soddisfatto" in quanto derubato da aspettative reali, privato dalla necessità di comunicare (dare e ricevere), forse anche sperimentare, andare oltre il proprio cerchio che già racchiude tutto, già appagato dalla quantità immane di situazioni disponibili per una vita emotivamente virtule, situazioni reali e realistiche che è possibile ricevere-vivere senza rischi attraverso le immagini rappresentate in internet e in tv e che propongono cose comunque tremende che succedono davvero "altrove", una verità ad effetto quindi, manipolata accuratamente nella scelta delle immagini proposte, nella censura di altre, ma assolutamente reale (e qui é la trappola) ma un reale che accade sempre e comunque in un altro luogo mentale e fisico, inestistente al tatto e alle sensazioni che gli diano forma e sostanza, un altrove capace di creare in noi un nirvana artificiale, una a-motività ebete e alla fine capace di perversioni atroci proprio perché vissute sempre al di là del proprio io, essendo, in questo modo ricettivo-passivo, ormai anestetizzata ogni coscienza, l'esistenza della quale é solo possibile in un rapporto profondo con l'altro, con ogni altro dei miliardi di altri che vivono, pensano soffrono, che sono un "io" come lo siamo noi. Tolto questo é stato cancellato Dio.

lettera a un'amica, adelina


lettera a un'amica, adelina

In Italia negli anni 1970/80, una testimonianza di Maria Gloria Conti Bicocchi, Santa teresa, La Beccana, Via Aurelia km. 225 (Follonica) Adelina, mi hai chiesto di raccontare per un tuo progetto quello che affiora della lontana esperienza di Santa Teresa, quella solitaria casa in mezzo alla campagna maremmana, ridisegnata dall’intelligente e raffinata architettura di Giancarlo, proprio per la speciale funzione che ha poi avuto di accogliere tanti amici, tappa importante delle visite degli artisti stranieri in Italia in quegli anni e in particolare in quel luogo. Lo faccio molto volentieri, con te che hai in prima persona fatto parte di molte di quelle serate, di molti di quei progetti. So quindi che il tuo è un ascolto particolare, come se fossi un pò tu stessa a ricordare. Ecco. L'Italia è sempre stata un luogo di conquiste, nei due sensi, per conquistarla e per esserne conquistati. La natura, la cultura, le persone che la abitano, la disponibilità che nasce forse dalle varie dominazioni straniere ma che poi la storia tramuta in dignitosa ammirazione verso "l'altro", verso l'estraneo che porta la propria cultura ed assimila a sua volta l'essenza del nostro paese, hanno sempre fatto parte della magia del viaggio in Italia. Per l'esperienza che ho avuto e per la quale mi reputo molto fortunata, le numerose visite a casa di Giancarlo e mia (Santa Teresa a Follonica) di artisti italiani e non, hanno rappresentato per ben venti anni, dal '72 in poi, il fulcro non solo del lavoro che facevo allora con il videotape, (l'art/tapes/22 che per sei anni ha prodotto fra i primi lavori video in Europa, lavori che testimoniano un'arte molto particolare, quella degli anni '70, in gran parte effimera perché legata al momento della performance, di cui costituiscono una testimonianza unica), ma soprattutto del sentimento dell'amicizia. Le amicizie nate infatti allora, quelle vere, mi accompagnano ancora, insistentemente, nelle tappe della mia vita ora così diversa. Credo che, innanzitutto, il fascino che l'Italia rappresentava e rappresenta per lo sguardo speciale di un artista, si sintetizzi in una concezione del lavoro che da noi non è legato a regole rigide, ma solo alle capacità personali e intuitive dei collaboratori, delle persone che lavorano con gli artisti: ecco, qui si lavora "con" e non "per" gli artisti, e questo atteggiamento, che rispecchia una profonda sensibilità, cambia, rovescia, direi, ampliandolo a tutto tondo, il "luogo" anche mentale del lavoro, lo rende carico di attese e quindi di accoglienza, e l'opera finale è così partecipe della particolare ricchezza umana che lo ha reso possibile. Se mi volto indietro nella sfera del ricordo, sembra anche a me "straordinario" che tanti artisti, ricchi di talento e di poesia, abbiano fatto della nostra casa un luogo del parlare, spesso del confrontarsi tra loro, del vivere il quotidiano in grande semplicità e insieme grande profondità e allegrezza. Ma allora, quando questo nucleo così straordinario si formava, la cosa ci appariva assolutamente normale e naturale. Ho vissuto fin da bambina, a Fiesole (essendo figlia di un artista, Primo Conti), accanto a grandi uomini che erano ospiti dei miei genitori, ed ho così conosciuto e giocato, senza meravigliarmene, con De Chirico, Picasso, Papini, Strawinskij, solo per citarne alcuni, e mi è stato facile vivere le serate di Follonica (con artisti come Kounellis, Acconci, Buren, Kosuth, Mario e Marisa Merz, De Dominicis, Boetti, Pistoletto e molti altri) come serate di meravigliosa amicizia e dialogo, en famille, dove bambini e adulti si mescolavano naturalmente e dove mai è entrato il fantasma di un qualsiasi profitto reciproco. Da questo si capisce che quelli erano davvero altri tempi. Ad uno ad uno gli artisti stranieri venivano in Italia dove trovavano una situazione eccellente di gallerie pronte ad esporre i loro lavori, a dare loro modo di lavorare in loco e persone di eccezionale sensibilità e disponibilità, ma non un mercato altrettanto allettante; è chiaro che i valori dello spirito erano molto più importanti di quelli economici e questo faceva sì che la qualità degli incontri, delle mostre, dell'amicizia fosse una qualità assolutamente speciale che a parere mio è difficile ritrovare ora. Ma forse è la voce della nostalgia che mi fa dire questo, infatti certi ricordi mi affiorano come attraverso il tremolio che il calore dell'estate crea sull'asfalto lucido, come il miraggio di un'oasi. Ecco che l'Italia in questo modo è stata conquistata dagli artisti stranieri, ma a sua volta li ha conquistati, rendendoli spesso abitanti permanenti dei suoi luoghi: Kosuth vive gran parte dell'anno in un paese della bassa Toscana e così Dibbets; Buren ha abitato per anni una casa nel volterrano, a S. Ippolito ed ora passa qualche mese nell'isola di Procida, Sol LeWitt ha una bellissima casa a Spoleto, Max Neuhaus vive a lungo a Ischia e altri ed altri ancora si stabiliranno da allora in poi in case disseminate nella campagna, vivendole sempre con grande rispetto e amore. Infatti io credo che gli artisti siano gli abitanti di una grande patria unica, il cui linguaggio è loro comprensibile e dove in realtà nessuno vi è straniero. Molte persone, oltre a Giancarlo e me negli anni di cui sto parlando, hanno dedicato all'arte, soprattutto agli artisti direi, oltre al proprio lavoro qualcosa di più importante: il loro quotidiano, la loro vita quindi. Persone che sono state molto più che galleristi, come Marcello e Lia Rumma, Lucio Amelio, Franco Toselli, Marilena Bonomo, Lucrezia De Domizio con Bubi Durini, molto più che collezionisti, come Graziella Lonardi Bontempo, Vittorio Franchetti, Angelo Baldassarre con sua moglie, Giuliano e Pina Gori, Giuseppe Panza di Biumo, più tardi Giuliana e Tommaso Setari, creando quell'atmosfera di cultura estesa attraverso tutta l'Italia, dove i confini tra casa e luogo di lavoro, tra città e luogo di riflessione e di vacanza, tra durezza e bellezza si estendevano e si dilatavano facendo del nostro paese, aldilà della retorica, il luogo dell'arte per eccellenza. Succedeva lo stesso anche da te a Ginevra, ricordi? Così il filo diretto con l'Italia rinascimentale, "l'Italia dell'arte", continua fino ai nostri giorni e non con minore prestigio. Gli artisti che venivano intorno agli anni '70 in Italia trovavano aperte per loro case e luoghi carichi di storia (ricordo in particolare in Toscana la villa di Artimino, del Buontalenti, dove Vittorio Dapelo era sempre disponibile) e venivano accolti con la semplicità del vero Ospite, senza mecenatismo, ma con uno scambio paritario di idee e di rapporto che dovrebbe essere la base di qualsiasi incontro. I critici d'arte stessi, Germano Celant, Achille Bonito Oliva e qualche volta Bruno Corà, facevano parte di questo quotidiano e indubbiamente anche per loro lo scorrere della vita scandito da un tempo "normale" condiviso con gli artisti, dava risultati eccellenti anche al momento dello scrivere. La dialettica era affilata a lungo, con calma, con reciproca generosità e spesso l'eventuale testo che seguiva era un testo scritto a quattro mani. Non so se questo accada ancora né se esistano ancora degli spazi fisici e mentali come Santa Teresa, dove l'arrivare era naturale anche senza invito, tappa di un percorso di conoscenza più vasto, che avrebbe portato gli ospiti dalla Toscana poi verso il sud, verso gli altri amici. Non so se questo interesse disinteressato sia ancora il perno del "parlare d'arte"; certamente so che gli artisti continuano a venire da noi dalle altre parti del mondo, da tutte le parti del mondo, anche da quelle più disagiate e più escluse dai ritmi della cultura, ci portano i loro lavori e fanno da noi delle mostre. Perché in fondo è al "mondo dell'arte" che appartengono, ovunque essi si trovino.
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© 2006 mariagloria email

lanterna magica testo di bill viola

Una riflessione del videoartista statunitense: quasi una pagina di diario in cui si incontrano lanterne magiche, misticismo e realtˆ virtuale.
Viola's impressions on virtual reality, misticism and magic lanterns.
Bill Viola
Sono un neofita della realtˆà virtuale, di cui ho seguito lo sviluppo da una certa distanza ma con molto interesse. Al momento sono impegnato nello sviluppo del mio primo progetto di realtˆà virtuale, una installazione creata per una mostra al Los Angeles County Museum of Art, intitolata Hidden in Plain Sight of Illusion and the Real in Recent Art. Vi parlo quindi non in qualitˆà di esperto di realtˆà virtuale, ma come videoartista con un esperienza che ammonta ormai a venticinque anni di lavoro, svolto più che altro creando installazioni e ambienti che occupano intere stanze, combinando suoni, effetti acustici e proiezioni in spazi architettonici che coinvolgono lo spettatore dal punto di vista fisico, psicologico ed emotivo. Pertanto esporre˜ qualche appunto sulla realtˆà virtuale, non come riflessione su una pratica, quanto come una serie di commenti e osservazioni sul modo in cui il mio lavoro si  è trovato ad anticipare, contemplare e infine collimare con il concetto di realtˆà virtuale.
Voglio iniziare con una citazione che risale a un incontro di molti anni fa:
"é impossibile esprimere a parole la bellezza di queste immagini. Qualsiasi dipinto sembra morto a confronto: questa  la vita in sŽè, anzi, qualcosa di più complicato ed elevato, se solo sapessi trovare le parole per descriverlo".
La citazione risale al 1622. Siamo in Olanda, la nostra guida  Constantijn Huygens, segretario della principessa di Orange. Sta descrivendo una camera oscura, quella straordinaria immagine ottica che riesce a ritrarre il mondo in tempo reale e in tutta la sua vivacitˆà. é il mondo reale intrappolato in una stanza, o proiettato su uno schermo luminoso, sul quale brillano la possibilitˆà, l'autoritˆà, l'incertezza e la tensione di un surrogato dell'esistenza. Anche avvalendosi del sistema ottico più primitivo, l'immagine si manifesta agli occhi di Huygens e di riflesso anche al nostro sguardo in tutta la sua potenza ontologica. Ovvero, l'immagine esiste, incarna l'Essere, o un essere: una presenza che avvertiamo quasi istintivamente, e che  è responsabile del suo puro fascino che ci conquista un fascino che sfugge all'analisi, per parlare direttamente ai nostri corpi.
Ecco un'altra citazione, che ci viene da un tempo ancora pi lontano. La dobbiamo a Ibn Arabi (1165-1240): mistico, poeta e filosofo, ribattezzato "Il sommo maestro" e, a ragione, ritenuto una delle menti più brillanti di tutto l'Islam, autore di più di settecento libri e, sfortunatamente, poco studiato in Occidente. La sua conoscenza la dobbiamo soprattutto al suo pi fedele interprete occidentale, Henri Corbin, il più grande studioso francese che, in questo nostro secolo, si sia dedicato alle religioni orientali.
"Tral'universo che pu˜ essere capito solo grazie alla percezione intellettuale più pura [il regno assoluto del divino] (l'universo delle intelligenze dei cherubini) e l'universo percepibile ai sensi, si apre un mondo intermedio, il mondo delle Idee-Immagini, figure archetipe, sostanze rarefatte, materie immateriale. Questo mondo  reale e oggettivo, opaco e tattile quanto gli altri mondi intelligibili e sensibili:  un universo intermedio in cui lo spirituale prende corpo e il corpo diventa spirito".
Parafrasando Arabi, Corbin ha definito questo spazio "Mondo Immaginale": uno spazio che non  è qui nŽè lˆà, e che, tuttavia,  è reale. Un mondo fatto di immaginazione, idee, immagini, sogni, ricordi, in un certo senso il mondo più importante per l'essere umano. Il Mondo Immaginale si avvicina molto al mondo in cui ci stiamo rapidamente abituando a vivere l'universo immateriale e reale dei telefoni, dei media, della TV, di Internet, dell'email e delle immagini elettroniche. Ciononostante Ibn Arabi si riferiva a qualcosa che trascendesse le nostre semplici strategie di marketing. é la componente vitale, esistenziale e ontologica che definisce il Mondo Immaginale; e torniamo cos“ì alla condizione fondamentale espressa dalla camera oscura, e, ancora prima, dal suo antenato, l'immagine iridescente che si distende sulla nostra retina anche adesso, proprio nel momento in cui vi parlo.
La realtˆà virtuale comincia a rivelarsi una pratica molto antica. Il suo legame con la camera oscura e documentata per la prima volta in Cina nel nono secolo richiama una serie di costanti che vale la pena di elencare:
L'immagine é una costruzione artificiale; esiste nel tempo reale (cioè, nel tempo dello spettatore) ed  è soggetta alla sua manipolazione; si lega allo spazio in cui vive lo spettatore.
Da questo punto di vista, la realtˆà virtuale ci appare come l'ultimo segmento di un lunghissimo processo storico, un legame evoluzionistico che collega la tecnologia del ventesimo secolo ai dipinti nelle caverne del paleolitico, alla camera oscura, alla prospettiva rinascimentale, agli affreschi incorniciati in spazi architettonici e all'antico desiderio di abitare un'immagine, di entrarvi.
Sono questi i miei punti di riferimento, ed  alla luce di queste posizioni e della mia esperienza che ho assistito allo sviluppo della realtàˆ virtuale in tempi pi recenti. Gli appunti che seguono sono solo semplici riflessioni personali.
Nella realtˆ virtuale, credo che questa sensazione sia una delle prime che ci colpiscono, l'immagine grafica, tradizionalmente considerata una registrazione di entitˆà giˆà esistenti (una traccia, un segno su una superficie), conquista quella fluiditˆà radicale, quella volatilitàˆ, quella stessa casualitˆà e quelle potenzialitˆà metamorfiche proprie dell'attimo presente. Non sto parlando dal punto di vista linguistico o intellettuale: uso una logica spaziale. Nella realtˆà virtuale il tempo è  sempre coniugato al presente. Nella maggior parte dei lavori che si avvalgono della realtˆà virtuale si distende una specie di inconcepibile "presente infinito": gli oggetti sono legati l'un l'altro dallo spazio, non dal tempo. Anche se li incontriamo in un dato ordine, in una sequenza, gli oggetti sembrano curiosamente divincolati da quella logica: vivono in universo eterno, senza tempo. L'attimo presente si trasforma anch'esso in spazio, illuminato dalla percezione diretta, riproponendo una situazione che molti filosofi e osservatori della natura umana hanno cercato di descrivere nel passato.
Nel mondo virtuale il desiderio diventa un elemento operativo e una caratteristica individuante. Mi piace pensare alla realtˆà virtuale come una forma d'arte che pratica la scultura della curiositˆà e del desiderio: la sua forma più vera  è universale e fondamentale quanto la sequenza tipicamente infantile "vedo-tocco-prendo". Ho sempre pensato che la vista fosse l'agente responsabile del movimento e dell'azione, mentre la sequenza azione/reazione  una nuova forma compositiva, che scavalca l'importanza dell'immagine e impone la necessitˆà di rivedere ed espandere i metodi tradizionali di discussione e insegnamento dell'arte, nutriti di pregiudizi fondati sulla prevalenza della vista e su immagini e oggetti statici.
Il linguaggio della realtˆà virtuale è prevalentemente spaziale. Di solito si cerca di collegare lo spazio apparente dell'immagine con quello familiare, reale in cui si muove lo spettatore: gran parte degli sforzi della realtˆà virtuale si concentrano sulla costruzione di uno spazio continuo più ampio, contiguo e parallelo al nostro spazio reale. Insomma, uno spazio nuovo, provvisto di un certo orientamento e di certe dimensioni, alle quali lo spettatore pu˜ accedere solo in parte, a seconda della posizione che mantiene in un preciso istante. L'efficacia della realtàˆ virtuale si misura proprio sulla base delle conquiste operate nella costruzione di questi legami. Ed è parte essenziale della realtˆ virtuale la cognizione che esistono vaste porzioni del mondo immaginario che restano invisibili o inaccessibili dal punto di vista in cui ci troviamo in un dato momento: ci sono porzioni che sono dietro di noi, altre al di lˆ dell'orizzonte, altre ancora sono oscurate da un qualche oggetto. Quindi, nella realtˆà virtuale, ci sono più immagini di quante effettivamente colpiscano il nostro occhio.
Questa enfasi sull'orientamento spaziale come modalitˆà operativa introduce l'immagine grafica direttamente nello spazio del corpo, segnando un importante passo nella storia dell'arte. Credo sia una conquista totalmente nuova, per quanto sia uno sviluppo radicale delle premesse inscritte nei grandi cicli di affreschi inseriti in ambienti architettonici, secondo il modello che si sviluppa tra il tredicesimo e il quindicesimo secolo. Lo scarto pi evidente è che oggi le immagini hanno un comportamento, e la loro forma  soggetta alle azioni e intenzioni dello spettatore.
Il luogo, il locus dello spazio reale, è il corpo umano, la convergenza di tutte le coordinate spaziali: perci˜ò la creazione dello spazio nella realtˆà virtuale  prima di tutto è la creazione e la personificazione dello spettatore. Le coordinate del corpo diventano il punto di riferimento dell'ambiente circostante, sia di quello interno sia di quello esterno. Il problema non é ci˜ò che vedi nel mondo virtuale, quanto piuttosto il posto che occupi, il "dove sei":  il senso del sŽé, dello spazio e del corpo a costituire il centro dell'esperienza e della costruzione di realtˆà virtuali. Ed  in questo senso che si pu˜ò cogliere il legame tra realtˆà virtuale, Brunelleschi e l'invenzione della prospettiva lineare nell'Italia del rinascimento.
Ogni volta che ci si rivolge al corpo invece che all'intelletto, ci si imbatte in una serie di pericoli. La funzione principale del movimento é la conoscenza. Un anatroccolo che venga trascinato dalla madre in un cesto, invece di seguirla passo a passo, non subisce alcun imprinting. La sequenza tipicamente infantile "vedo-tocco-prendo"  é una modalitˆà epistemologica fondamentale; ma, per molti adulti, il sistema di azione/reazione torna a essere utile solo nella pratica fisica degli sport e del sesso. Come sapeva bene MliŽs cent'anni fa e come ben sanno Lucas e Spielberg, una bella corsa su un otto volante funzionerˆà sempre in un film: il movimento in sŽé, senza scopo nŽé fine,  é molto seducente, anche se di rado pu˜ò diventare uno strumento di conoscenza.
La parola "arte" ricorre in tutti i titoli degli interventi presentati in questa conferenza, ripetuta come un mantra. Quindi, prima di concludere, credo che valga la pena precisare cosa intendo io con quel termine.
In primo luogo dobbiamo sottolineare che l'arte:
1.si fonda sempre su una data tecnologia ed é connessa ai suoi sviluppi; 2. sempre interattiva, sia nella sua essenza originaria, sia nel processo che la mantiene viva e la muta secondo la storia
Quando penso all'influenza della tecnologia sull'arte, mi riferisco agli archi rampanti del dodicesimo secolo, all'invenzione dei colori a olio nel XV secolo, allo sviluppo dei tubetti per i colori nel 1800 e alla creazione delle videocamera portatile nel nostro secolo. Quando parlo di interattivitˆ dell'arte, penso a quando ci si sposta nella cappella degli Scrovegni di Giotto, o quando si incontra lo sguardo della ragazza in un dipinto di Vermeer, o, ancora, alla mia retina e al mio cervello che inconsciamente mescolano i colori per creare la figura di una donna della Grande Jatte di Seurat.
Molte persone entrano in contatto con l'arte, o si accorgono di fare dell'arte, quando si iscrivono all'universitˆà e scoprono la vecchia divisione in "arti e scienze". L'utilizzo del termine "arte" in questo contesto deriva dal medioevo, quando sia l'artigianato sia certe forme di conoscenza venivano raggruppate sotto lo stesso termine di arte. In quell'epoca il mondo dell'arte si esprimeva nel sistema delle corporazioni, che, dal medioevo fino al rinascimento e oltre, resta il sistema dominante per la creazione e promozione delle opere d'arte. Sono espressioni delle corporazioni gli innumerevoli trittici, le pale d'altare e le sacre conversazioni che rivelano ben poche innovazioni compositive o di contenuto, ma una grande affinazione tecnica e formale. L'enfasi sulla tecnologia si ripresenta ogni volta in cui l'arte incontra una tecnica radicalmente nuova, come nel caso della fotografia nel 1800, o dell'elettronica nella nostra fine secolo.
Oggi, quando sentiamo la parola "arte", pensiamo a qualcosa di ben fatto, prodotto di un'abilitàˆ straordinaria e di un misto di stile e grazia, come nel caso dell'arte di Michael Jordon, di Tom Hanks o di Itzak Perlman. Oppure pensiamo a un'attivitˆà o a una disciplina che richiede la perfetta conoscenza di una tecnica, come nei casi dell'arte del cucito, del legno o, infine, della realtˆà virtuale. Entrambi gli esempi pongono l'accento sulla tecnica, la bravura e l'esperienza, implicando una scala di valori basata sulla qualitˆà conquistata grazie alla pratica e all'esercizio.
Ma c'é una terza zona che non  racchiusa nella definizioni legate alla capacitˆà tecnica o artigianale. Itzak Perlman  é un grande violinista dotato di una straordinaria abilitˆà, ma non scrive musica: non é nŽé Mozart, nŽé Beethoven. Essendo un compositore, Beethoven pretende che i musicisti condividano e interpretino la sua musica per rendercela disponibile. Il musicista deve essere un virtuoso, deve conoscere la tecnica, ma Beethoven non chiederebbe mai a un musicista di scrivere musica. Ecco un'importante distinzione, tra compositore ed esecutore. Essere un esecutore non riduce affatto la bravura e la creativitˆà di Perlman o di qualsiasi altro musicista, néŽ incrina la relazione simbiotica che li lega a un compositore. Il problema é che Perlman non é coinvolto nella vera, assoluta Creazione, quella inarrestabile forza della visione individuale che riesce a introdurre nel mondo qualcosa che non esiste prima, qualcosa che trascende lo strumento o la tecnica, introducendo in un oggetto costruito ad arte quella misteriosa ineffabilitˆà che ci permette di distinguere un Giotto o un Vermeer da centinaia di semplici artigiani dell'epoca. Quella stessa ineffabilitˆà che, dopo secoli, ci parla ancora con lo stesso tono di voce, personale e profondo.
Ho voluto dare questa definizione di ci˜ò che intendo con il termine "arte" perchŽé nei nostri musei, nelle nostre conferenze, le parole "arte" e "artisti" sono applicate alle attivitˆà e alle persone più diverse e distanti. A differenza degli Inuit, che hanno una decine di parole per parlare della neve, noi abbiamo un solo termine per descrivere l'arte, e continuiamo a utilizzarla per riferirci a uno spettro gigantesco di condizioni culturali, creando una confusione che compromette l'apprezzamento e la comprensione di tutti gli aspetti dell'Arte.
Per quanto mi riguarda, quando parlo di arte intendo ci˜ò che vi ho appena detto; ed  quell'ineffabilitˆà che cerco, dentro o fuori dal recinto delle Belle Arti. é quell'elemento che cerco nelle parole, nelle immagini, nei suoni, nella stessa esperienza e in discipline quali la pittura, la musica, il video e la realtˆà virtuale. E non mi posso affidare che ai miei occhi, alle orecchie, alle mani o alle papille gustative per riconoscerla; solo il mio essere più profondo, la mia emotivitˆà, l'intuito e le emozioni ne percepiscono la forma familiare. L'arte é ci˜ò che conosco intimamente, eppure, come diceva san Agostino: "So benissimo cosa sia il Tempo almeno fino a che qualcuno non mi chieda di spiegarglielo" non so nulla sulla sua vera Natura, o su come controllarla, riprodurla ed evocarla a comando (condizioni che sono necessarie per garantirsi un buon successo commerciale). Credo che ci sia una specie di condizione immutabile che scaturisce dall'interazione creativa tra esseri umani e oggetti materiali; e questa condizione si riproporrˆà costantemente e inevitabilmente, a prescindere dalla direzione in cui decidiamo di incanalare la nostra curiositˆà e creativitˆà. Ci sarˆà sempre, finchŽé l'occhio potrˆà vedere, finchŽé la mente potrˆà immaginare, fino a che continuerˆà l'evoluzione della tecnologia delle immagini. L'arte é qui con noi, adesso, latente e in potenza, in ogni spazio che creiamo, reale o virtuale che sia: noi dobbiamo soltanto lasciarle lo spazio per crescere e svilupparsi, e riconoscerla quando apparirˆà sotto nuove forme.