breve storia di art/tapes/22
Maria Gloria Bicocchi
testo per un convegno promosso da MarcoMeneguzzi sui diritti d'autore dell'arte in videotape
D’altronde il mezzo stesso con cui l’artista nel nostro caso si esprime, è sinonimo di grande e libera visibilità, ottimalmente quindi fruibile dal mezzo televisivo, dai siti web eccetera, e Gerry Shum l’aveva teorizzato ben quaranta anni fa. Personalmente ho sempre pensato che le opere prodotte da art/tapes/22 fossero idedalmente destinate a canali di grande comunicazione (ad esempio Dauglas Davis, se non mi sbaglio nel 1976, mostrò i suoi video, tra i quali "Florence tape" prodotto da art/tapes/22, come Shum a suo tempo, attraverso la televisione tedesca e in seguito anche in eurovisione), piuttosto che ridimensionati a oggetti e mostrati solo in musei o gallerie, visti da poche persone. Credo sia questo malinteso, il voler ricondurre tutto a “oggetto” vendibile, a porre il problema dei diritti d’autore, laddove per diritti non si parli di proprietà simbolica e morale. I messaggi non si possono possedere, sono come simulacri rispetto a differenti "oggetti d'arte" ed é per questo che, pur sempre duplicati, non ne possono esistere dei "falsi," la copia, in questo caso, è l'unico modo per godere l'opera stessa, ed il mezzo, in questo caso il supporto video, non è quindi il messaggio, ma solo il suo occasionale supporto, come tale suscettibile di continui aggiornamenti. Chi avesse acquistato un video nel 1973, prodotto in nastro real-to-real di ¾ di pollice, ora non avrebbe niente da vedere, ma dato che questa opera può essere riversata in supporti più aggiornati (ed è quello che Giorgio Busetto, curatore dell’Asac, sta facendo anche con i video di art/ tapes/22) ecco che il video può essere ancora e ancora visto in futuro, rimanendo lo stesso "video d'artista", a prescindere dal suo supporto originale, puramente contingente. L’opera incanalata in un supporto video piuttosto che in un altro, non è “possedibile” in sé, è solo godibile atraverso i riversamenti più opportuni. Non facciamo un feticcio del mezzo, soprattutto non allarmiamoci se le opere vengono copiate: al di là della convenienza economica che magari oggi è grande, ma io non mi intendo di mercato, mi sembra belllissimo e anche gratificante per un artista che un suo lavoro sia così bello da far desiderare di poterlo vedere sul proprio televisore… d’altronde evitare questa eventualità è impossibile e sarebbe più realistico prevedere la fruizione dei video di artista in luoghi deputati con affitti corretti che coprano le spese e una compenso per l'artista, l’immissione in canali di grande comunicazione come la tv e soprattutto il web, sempre dietro un compenso adeguato, e per ultimo la vendita (solo se l’artista lo voglia) di opere “uniche” quindi oggettificando il video come messaggio e supporto insieme, in questo caso a prezzo da amatori come le altre opere realizzate con altri mezzi. E alla fine forse è giusto anche accettare la prospettiva della possibile e inevitabile libera duplicazione del video che, come il film, è un'opera di "comunicazione" e non un oggetto immobile in sé. Il volerne controllare l'espansione somiglia un po' ad immettere anche queste opere all'interno di una globalizzazione di mercato alle cui regole sfuggono per la loro stessa natura. Non si può mai trattare una nuova espressione dell’arte con i canoni usati per le altre precedenti. Accettare che esista un’opera d'arte importante che sia fatta con e per il supporto video implica anche un cambiamento di mentalità, di concetto di “possesso” e credo che gli artisti ne siano consapevoli dal primo momento che si avvicinano a questo mezzo. Quindi si può parlare solo di possesso simbolico, di proprietà morale ed etica dell’opera, che è e rimane assolutamente e solo dell’autore.
testo dell'intervista con Cosetta Saba per il libro su art/tapes/22,"Arte in videotape" Silvana editoriale 2007. promosso dal Dams di Gorizia e dall'Asac di Venezia
a cura di Cosetta G. Saba e Mirco Infanti
Premessa personale all’intervista
Mi trovo ora ad essere appassionata spettatrice delle cose accadute: come avere dato alla luce un figlio e poi accorgersi di avere procreato un genio! Voglio sottolineare che io non sono una critica né tanto meno una storica della videoarte, sono solo (ed è molto) una persona che, nata nel mondo dell’arte (essendo figlia di un artista, nella nostra casa di Fiesole, ora museo Primo Conti, venivano a passare dei giorni con noi Giorgio De Chirico con la moglie, Ungaretti, Montale, Strawinski, eccetera, e ricordo un Natale da Pablo Picasso a Vances) la mia sensibilità è sempre stata spontaneamente rivolta all’arte e sempre al domani, è quindi accaduto che facessi questo importante percorso con gli artisti che lo hanno fatto con me, attraverso art/tapes/22, una sorta di esplorazione nel linguaggio della loro arte in questo caso espressa con il mezzo video. Questo è tutto. Sono stata in senso profondo amica loro e mai committente o critica, abbiamo come “suonato a quattro mani”, la lettura di questo percorso (come accade sempre) è venuta a posteriori, molto molto dopo: al momento eravamo tutti in realtà affascinati proprio dalla non esistenza di canoni o letture in chiavi estetico-filosofiche, apprezzavamo tutti la grande libertà che si stava rivelando in ogni momento. Quello che voglio premettere forse aiuterà a comprendere il senso di tante mie risposte alle vostre domande, e anche il senso di tante "non risposte".
Negli anni di art/tapes/22 l'ideologia poggiava, forse utopisticamente, su grandi azzeramenti per cominciare e non solo ricominciare: critici come Carla Lonzi allora, nel suo libro "Autoritratto" e Adachiara Zevi oggi, nel suo "Peripezie nel dopoguerra nell'arte italiana", hanno poggiato il proprio "mestiere" su una pratica basata sul solo rispetto dell'artista, affidando la lettura dei loro lavori e del loro essere artisti solo al proprio intuito e alla convinzione di “essere partecipi di qualcosa che é cultura", anziché di riprodurla, sempre ponendo e ponendosi delle semplici, semplicissime domande, e lasciando che le risposte fossero già tutte nel lavoro e nelle persone, lasciando gli artisti quindi sempre centrali e assoluti protagonisti.
Dico questo perché ora invece la cultura ha come bisogno di autogarantirsi nella storicizzazione, nelle citazioni e nelle analogie: sono letture molto interessanti, ma assolutamente "a posteriori", il periodo in cui l'opera d'arte nasce è al di fuori da qualsiasi progetto "colto" perché è l’oprra d’arte stessa ad essere “cultura”, e quindi non ha bisogno di riferimenti per esistere. Ad esempio, in Kounellis il lavoro é sempre RIVOLUZIONARIO e in Kosuth il lavoro E’ LA CITAZIONE, la tautologia, queste importanti basi SONO L'OPERA STESSA e non dei riferimenti. La tensione e l'intenzione dell'opera sono sempre autonome rispetto alla probabile lettura critica a posteriori. La conoscenza, indispensabile alla comprensione, deve in qualche modo proporre una scorciatoia, una assolutezza della lettura anziché arricchirla con discipline collaterali come la filosofia, l'estetica, la storia ed altro, questo lavoro di ri-costruzione che la storia fa delle opere prodotte in passati prossimi o remoti, é una necessità tutta legata agli studiosi, agli storici e ai critici, non una necessità dell'artista né tanto meno dell'opera in sé che non ne ha bisogno per esistere.
D'altronde l'artista vero non si riferisce mai a ciò che viene detto del suo lavoro, spesso lo ignora, altre volte non lo condivide: l'analisi delle opere non é un problema suo. Questo era assolutamente il clima in cui art/tapes/22 ha operato, negli anni '72/78, e questa ideologia mi é rimasta indelebile addosso e influenza comunque sempre ogni mio intervento sul passato ma anche sul presente! Lascio quindi ad altri la lettura critica e storica di quegli anni e di quei lavori, di quell’avventura di via Ricasoli 22 a Firenze nella quale mi riconosco troppo per saperla analizzare se non attraverso una partecipazione appassionata…
Intervista
[c.g.s] Vorrei cominciare questa conversazione dal tema del doppio livello di “presenza” che tu senti di avere verso art/tapes/22. La “presenza” di allora: il fare, il pensare art/tapes/22 come se il fatto di intraprendere un percorso esperienziale coincidesse con l’azione di tracciarlo, di "inventarlo", ma senza alcuna predeterminazione o mira; «pensare e fare "art/tapes/22" - hai detto - è stato come "respirare"… ». La “presenza” attuale che implica invece un percorso di storicizzazione e che ti fa guardare a quell’esperienza da una qualche distanza, che ti fa sentire "spettatrice" di art/tapes/22 centro di produzione, distribuzione di videotape d’artista e di disseminazione della "video arte". “Video arte” che allora non un "nome" né definizione (penso alla lunga riflessione che nel 1974 René Berger dedicò a questo tema nel saggio “L’art vidéo. Defis et paradoxes&rdquo1 e che è ancora oggi investita di problematicità "produttive".
[m.g.b] Sì, ti confermo che il lavoro fatto con gli artisti per produrre le loro opere in video è stato un “lavoro” di attraversamento della mia stessa vita, spesso anche della loro vita, mai un progetto rigoroso, è stata un'operazione assolutamente orizzontale, un percorso creativo come è in realtà quello dell’arte in genere, la cultura cammina precedendo se stessa, va avanti senza premeditazione né disegni di politica culturale.
In quanto alla definizione, ancora oggi "video arte" è tutto e niente. Esistono dei lavori di artisti che hanno semplicemente "usato" il mezzo video ed esistono lavori di artisti (Bill Viola) i cui meravigliosi "tableaux vivants" si basano su una ricerca straordinaria e sofisticata del mezzo e quindi il risultato, al contrario di altre esperienze, è un'opera in verticale, in profondità. Non esiste un “meglio” o un “peggio”, esistono artisti diversi tra loro, liberi di realizzare la propria arte con qualsiasi mezzo e con qualsiasi approccio a ogni mezzo, ed esistono poi persone che vedendo le opere di artisti diversi si riconoscono maggiormente in una piuttosto che in un’altra, soggettivamente e legittimamente.
[c.g.s] Sì, non è certo una questione risolvibile sul piano del giudizio qualitativo o del giudizio estetico. Semmai è un tema che pertiene alla definizione dell’arte, alla vexata quaestio del che cosa sia l’arte o quale sia la sua funzione, anche rispetto ai media e ai linguaggi.
Nell’intervista di Valentina Valentini e Alessandra Cigala - riferendoti in particolare ai No title di Jannis Kounellis e a Unisono di Paolini - sostenevi: «Quando ho iniziato a produrre video di artisti non mi sono rivolta essenzialmente a chi faceva del linguaggio video il suo campo specifico e preferenziale di espressione. Nel campo delle arti visive (e allora eravamo in piena fioritura della Performance art) non ho mai distinto il video-artista dall’artista tout-court che sperimenta diversi linguaggi e tecniche. Non ho mai operato questa distinzione. Non credo nell’artista video, credo nell’artista che fa anche un videotape, e questo fa parte del suo lavoro globale, è uno dei suoi lavori». 2
[m.g.b] Con qualche eccezione sono ancora convinta che il valore stia nel lavoro dell'artista, nell'arte, piuttosto che il tipo di supporto con cui un artista lo ha realizzato, e sono ancora convinta che il video lasci tutta la libertà possibile a chi lo usi per produrre una sua opera. Tanta è la libertà di questo tramite che ad esempio Bill Viola che lo usa come una lente tridimensionale, quasi un ologramma ruotante, una pittura precisissima, è esattamente un artista che lavora con il video, come gli altri, e non un video artista e basta, come si usa definirlo. Ci sono tanti modi per "dipingere", non scordiamoci che Jannis Kounellis si definisce "pittore" e con ragione anche se non tocca un pennello! L'arte è il risultato emozionale e visivo dell'opera.
Perché ho chiamato "antivideotape" quello di Jannis: perché, essendo questo lavoro soltanto un’opera che esprime se stessa, al di là delle possibilità del mezzo, può definirsi “antivideotape”, ma "Senza titolo" è assolutamente quello che doveva essere: un'opera di Kounellis realizzata con il solo mezzo con cui questo specifico lavoro poteva essere realizzato per “rimanere”, al contrario di una performance, quindi il video. È un bellissimo videotape, e un vero videotape! Il risultato sta nella libertà di ogni artista di esprimersi appunto senza il vincolo di sentire il mezzo video come un linguaggio che abbia le sue regole.
[c.g.s] La definizione di “anti-videotape” è tua; è contenuta nella già citata intervista di Valentina Valentini e Alessandra Cigala. Parlavi dell’opera di Kounellis riferendola - secondo me in modo piuttosto interessante - a «una concezione retoricamente “anti-videotape” […]: non ci sono né colore né azione né suono. È una lunga sequenza nella quale appare Jannis, con il volto coperto dalla maschera di Apollo e una lampada a olio in mano e immobile per mezz’ora, per tutta la durata del nastro. Si capisce che una still life perché la sua mano un po’ si muove. Ma non è una performance, è un suo lavoro “vivo” che rimane nella storia attraverso il mezzo video». 8
(mg) Sì, confermo le mie parole e aggiungo anche che so per certezza che Kounellis spesso non ricorda di aver fatto "un videotape" ma sicuramente ricorda una sua opera realizzata a Firenze con me, in cui con la maschera di Apollo tiene una lanterna nella mano sinistra..
[c.g.s] Penso assolutamente che art/tapes/22 non sia “archeologia” della video arte, ma arte video in nuce. Così oltre a Nam June Paik e a Bruce Neuman è impossibile non pensare a Bill Viola, operatore e direttore del settore tecnico di art/tapes/22 dal 1974 al 1976. Nel corso delle attività di restauro, vedendo e rivedendo in questi mesi i suoi videotape, ci siamo chiesti come mai abbia potuto - con la piattaforma tecnologica a disposizione (quella dell’epoca intendo) - sperimentare il linguaggio video allora in via di definizione e praticare il “montaggio” [penso in particolare a Gravitational pull, girato nel 1974 negli spazi art/tapes/22] in un modo così straordinario, eccedendo la tecnica e la base tecnologica stessa del medium.
[m.g.b] Billy quando è venuto da me era in assoluto “l'allievo” migliore che ci fosse nelle università americane (aveva “studiato video” con il giovanissimo David A. Ross) in questo settore, di qui la capacità (magia?) di realizzare montaggi straordinari con equipaggiamenti minimi..spesso montavamo a mano usando un gessetto sul nastro che girava, tagliandolo/attaccandolo poi nel punto esatto! Billi ha lavorato con me in art/tapes/22 con grande passione, disciplina, capacità e creatività. Era chiarissimo fin dai primi video che ha realizzato a Firenze, che il suo non era soltanto un “mestiere” e che il video per lui non era un mezzo piuttosto di un altro, come per moltissimi altri artisti. Il video ERA LUI! Ne aveva bisogno per esprimere la bellezza che aveva (ed ha) in sé.Il perfezionismo che ha perseguito e infine raggiunto è assolutamente frutto della sua indole meditativa ed altamente spirituale: solo nell'astrazione dal sé possono raggiungere delle rarefazioni così perfette!
Un momento importante per lui, ad esempio, è stato l’incontro avvenuto un anno fa con il Dalai Lama, incontro del quale mi ha inviato una fotografia commovente: prima di lavorare ha sempre preso del tempo per meditare, se si esamina la maggior parte dei suoi lavori, i soggetti sono sempre al di sopra di una semplice temporalità, dalla nascita alla morte e oltre, l’”oltre” è sempre presente nella sua ricerca artistica, che poi riflette la sua ricerca umana.
Sono tuttora costantemente in contatto con lui, siamo legati da un qualcosa di molto speciale che va al di là dell'amicizia o dell'aver lavorato e vissuto tre anni insieme, qualcosa di molto profondo.
[c.g.s] Come ripensi il contesto di definizione di art/tapes/22 e degli altri centri di videoarte in Europa: Fernsehgalerie di Gerry Schum, lo Studio 970/ 2 di Luciano Giaccari, il Centro Video Arte di Ferrara, fondato da Lola Bonora, la galleria Il Cavallino di Venezia?
[m.g.b] Per Gerry Schum ho sempre avuto una grandissima ammirazione e trovo i lavori Land art e Identifications tra i più belli mai prodotti in questo campo fino a tutt'oggi. Con Paolo Cardazzo, della galleria del Cavallino di Venezia, ho collaborato spesso, soprattutto per i contatti con artisti dell'est europeo. È stata una delle rarissime persone che ha amato questo mezzo, e attraverso la sua partecipazione curiosa e attenta si è costruito (come anche l’industriale Luigi Rossi) una collezione invidiabile di videotape, e tuttora continua ad occuparsi con intelligenza di questa forma di arte. È un carissimo amico, oltre che l'editore del mio libro. 3 Luciano Giaccari ha fatto un importantissimo lavoro di documentazione, il suo archivio credo contenga assolutamente tutto il lavoro degli artisti comportamentisti che sono passati in quegli anni per l'Italia. Anche Lola Bonora ha prodotto e forse produce ancora, video importanti con il museo civico di Ferrara.
[c.g.s] Quali sono stati i criteri delle scelte produttive e di quelle scelte distributive?
[m.g.b] Nessun criterio preciso, alle scelte della produzione si aggiungevano via via le occasioni, le proposte per la distribuzione di opere prodotte altrove: questo avveniva soprattutto per amicizia e per stima reciproca con gli artisti e con galleristi come Leo Catelli e Ileana Sonnabend.
art/tapes/22 non ha mai avuto nessun aspetto "professionale", nessun progetto a monte, tutto si è svolto liberamente, come il respiro: via via gli artisti venivano invitati direttamente da noi, o li incontravamo in qualche parte del mondo, o ancora venivano per realizzare una mostra nelle gallerie Schema e Area e accadeva che poi lavorassero con art/tapes/22; è stato un discorso di vita, non solo di lavoro, ed è stata proprio questa “libertà” assoluta a incantare tanti artisti, a far loro prolungare il discorso di lavoro con quello, tutt’ora in molti casi esistente, di grande amicizia. Sembra strano anche a me, ora, ma magicamente è stato così! Allan Kaprow sottolineava la grande differenza tra gli studi americani dove il tecnico in camice bianco inizia a lavorare alle 10 e finisce alle 5,30, rispetto a noi che eravamo partecipi emozionalmente e fisicamente sempre, disponibili giorno e notte, una condivisione straordinaria di una importante porzione di vita.
[c.g.s] art/tapes/22 è un luogo di attraversamenti, di presenze e (mutuando la definizione da Gérad Genette) di una “pluralità operale”: 4 l’ “installazione” immobile di Daniel Buren, 5 l’ “anti-videotape” di Jannis Kounellis, l’ “Unisono” di Giulio Paolini ecc. Detto altrimenti, il videotape era parte dell’operazione espressiva che gli artisti stavano compiendo in quel periodo.
[m.g.b] Di questi amici, grandi artisti, parlo a lungo nel mio libro: 6 le presenze loro erano costanti, tutte le estati a Santa Teresa, molti Natali a Sant'Ippolito (due luoghi a me molto cari) e sempre con reciproca e grande amicizia: tutt'ora, come dicevo prima, è così con molti di loro.
[c.g.s] Ancora una domanda sul contenuto dell’ “installazione immobile” di Buren che metteva in circuito chiuso la sua “pittura impersonale” sulla quale aveva puntato delle telecamere collegate a dei televisori di differenti grandezze non attivando la registrazione, bensì solo la trasmissione «assoluta e simultanea». 9 I televisori dunque fungevano, al contempo, da cornice e da quadro? È stata secondo te un’operazione sui limiti dell’opera pittorica o una critica del medium video?
[m.g.b] L'installazione di Daniel Buren è stata il solo "evento" di questo tipo affrontato da noi: consisteva nel rifare in onore di Gerry Schum, un lavoro già progettato per lui anni prima. 7 Ho visto tante volte lavorare Daniel per realizzare le sue opere (tre di queste nelle mie case, l’ultino per la terrazza della casa dove vivo ora, a Procida), ma quella volta il lavoro "manuale" era collettivo, tutti insieme, ed è stato molto emozionante. E’ stata anche una delle poche video installazioni dell’artista, certamente con riferimento all’incorniciatura di quadri e ai quadri stessi che altro non erano che le porzioni ritagliate da Daniel nella parete opposta ricoparta con le sue strisce!
[c.g.s] Che cosa pensi della decisione dell’ASAC di intraprendere un’attività di restauro preservativo digitale delle video opere di art/tapes/22?
[m.g.b] Penso che abbiano affrontato, forse con ritardo, un percorso doveroso e importantissimo, non tanto per "salvare" il supporto originale (che comunque in un archivio rimane come documento estremamente importante), ma per rispettarne il contenuto, l'opera degli artisti cioè, e poterlo rendere fruibile nel tempo, come è il destino delle opere d'arte, tutte.
[c.g.s] Il nastro magnetico porta con sé la sua stessa deperibilità. Ma forse, anzi quasi certamente, per quanto attiene al corpus art/tapes/22 il deterioramento del supporto (della materia) è un limite delle tecnologie video dei primi anni Settanta e non una componente prevista, programmatica dell’opera stessa. Nondimeno quella dell’intervento di restauro preservativo digitale è una scelta che dà da pensare e pone in campo metodi, pratiche, protocolli ai quali sono sottesi principi teorici (filologici, semiotici ed estetici) ed etici. È una scelta che pone molti problemi e che riguarda infatti tutta l’arte contemporanea e il cinema.
Tu sostieni che “il supporto non è l’opera” ed è un assunto che ha differenti incidenze riguardo, ad esempio, alla questione delle “copie originali”, dell’opera multipla e, soprattutto, rispetto ai modi artistici che programmaticamente non hanno manifestazione, nel senso che non coincidono con un “esito”, un “resto”, un “oggetto” o il cui contenuto non è immediatamente riconducibile alla superficie espressiva che pure gli si correla (come accade segnatamente per l’arte concettuale, ma non solo).
Non ritieni però che le pratiche del restauro preservativo pongano in evidenza il fatto che pellicola e nastro magnetico non siano soltanto supporti “indifferenti” dell’opera, ma in qualche modo anche la “materia” di cui essa si sostanzia, che è in grado di sviluppare importanti aspetti formali, aspetti “linguistici” da un grado zero, quello della “registrazione” ad un grado elevatissimo di elaborazione (come accade nelle opere di Bill Viola o in quelle diversissime di Steina e Woody Vasulka)?
[m.g.b Certamente, in molti casi, come in Nam Jun Paik, nei Vasulka e qualche volta in Bill Viola, il mezzo, lo strumento e la sua sofisticazione sono l’unico modo per realizzare “proprio quell’opera”, ma in Europa, negli anni di art/tapes/22, il supporto non ha dato alcun aiuto agli artisti. Per quanto riguarda le opere “originali” rispetto alle “copie”, al di là della legittimità della valorizzazione del "feticcio", della scelta di una persona di acquistare una "prima edizione" di un libro che ama, anche se fatiscente, illeggibile e quindi ridotto a mero oggetto di venerazione, invece di ritenere l'opera esistere nelle parole... «Guido io vorrei che tu Lapo ed io .... » - io prendo come sai una certa distanza da questo punto di vista, anche perché comunque ritengo che "il feticcio" consista soprattutto in una operazione destinata a mitizzare un oggetto come tale, esprima quindi un atteggiamento un po' maniacale come è sempre quello del collezionista, “linguisticamente” sbagliato per l'espressione dell'arte relativa alla produzione con il videotape. Ogni opera prodotta in video, in film, foto o altro realizzato con un "mezzo tecnologico", per rimanere nella relativa eternità che vogliamo sempre garantire alle opere che amiamo, necessiterà sempre di aggiornamenti, riversamenti, via via che la tecnologia avanzerà, cambierà, si semplificherà. Questo non toglie niente all'opera in sé ma solo al suo involucro. Attenzione a non fare una lettura metonimica dell'opera video, una parte per il tutto, scambiando il supporto per l'opera in sé. La video arte è frattalica, orizzontale, destinata a spargersi ovunque: se si ipotizza come mezzo ottimale di divulgazione il web, ad esempio, ecco che finalmente l'involucro, il possesso, l'originale spariscono, e con loro finiscono i malintesi che rischiano di ricondurre il giudizio sulla video arte esattamente ai parametri di altre opere d'arte, l'oggettificazione, i multipli, l'opera unica, quindi il collezionismo eccetera.
[c.g.s] Quali sono i motivi che hanno fatto sì che in art/tapes/22, ad eccezione degli interventi di Giuseppe Chiari, Bill Viola e dei Vasulka, l’incidenza degli aspetti tecnologici e tecnici sul linguaggio video non si attestasse che a un “grado zero”, quello della registrazione?
[m.g.b] Mi ripeto forse, ma lo devo fare per rispondere a questa domanda: negli anni Settanta le risorse tecnologiche erano primitive e inadeguate rispetto ad ora, mi piace però ripetere che secondo me, comunque, per l'espressione artistica che in quel periodo la video arte rappresentava, il supporto non significasse altro che un mezzo per realizzare un’opera e non il linguaggio dell’opera stessa (almeno per quanto riguarda l'Europa, per gli Stati Uniti il discorso è opposto fin da allora).
[c.g.s] Perché il videotape in Italia, in quegli anni, è stato “mezzo” e non “linguaggio”?
[m.g.b.] Questa teoria del mezzo che non è linguaggio è soprattutto una teoria mia e non genericamente europea: in Italia e in Europa, se si pensa ai lavori realizzati da Gerry Schum, il fatto che la tecnologia non fosse sofisticata e che non ci fossero “scuole” per questa nuova disciplina (in USA ad esempio la Long Beach University aveva come docente David A. Ross e sfornava giovani artisti come Bill Viola!) ha sicuramente contribuito a lasciare l'artista più libero di esprimersi per fare, sia pure con questo mezzo “nuovo” soltanto un “suo lavoro”, come gli altri: qualcuno su carta, altri su tela, altri con il video, altri con la performance.
[m.i] Realizzare un’opera d’arte su tela, piuttosto che su carta o video costituisce un’enorme differenza. Esprimere un concetto di fronte ad una videocamera è diverso rispetto all’esprimerlo su tela o su carta (o qualsiasi altro supporto), presuppone un linguaggio diverso, che va necessariamente costruito (nel caso in cui esso non esista), o adattato (nel caso in cui si differenzi da qualsiasi altro linguaggio preesistente) se si vuole che il messaggio contenuto nell’opera giunga a destinazione. Forse, come tu dici, il video non è un linguaggio, ma converrai che non è neppure un semplice mezzo, ma è strumento di realizzazione e di creazione e trasmissione.
Scusa se insisto, ma gli anni Sessanta e Settanta hanno costituito sul piano culturale un particolare periodo di “rilancio” nel modo di fare, vedere e concepire l’arte (che tu stessa, nel caso di art/tapes/ 22, hai più volte definito «il Nuovo Rinascimento fiorentino». Il cosiddetto cinema sperimentale (o, come andava definendosi in USA e in Europa, underground) ha costituito una sorta di rivoluzione nel modo di concepire e soprattutto di esprimere l’arte, mediante un “intervento sul linguaggio”. La riflessione (sul linguaggio) che n’è scaturita veniva a costituire il punto focale di una più ampia riflessione sull’arte, in un continuo scambio alla pari d’idee, risorse e concetti. Si realizzarono così incursioni in campo linguistico-letterario a testimonianza della tendenza dell’ambiente artistico di cogliere dal mondo della poesia e della scrittura, e dalla struttura che le regola, importanti segnali di una svolta radicale, che si realizza attraverso la ricerca e la riflessione sul linguaggio stesso (e che si sarebbe poi propagata in tutti gli altri ambiti del sapere e dell’arte). Roland Barthes asseriva che “essendo tutto il linguaggio la deriva da un campo specifico ad un altro” questo implicava “una verifica costante e ogni volta riavviata della medesima questione: non vi è neutralità né oggettività nel linguaggio, e le sue forme e modi di strutturarsi e articolarsi vanno costantemente verificati e ripensati alla luce delle trasformazioni del contesto”. Tali “verifiche” e sperimentazioni sono avvenute sia sul piano concettuale (nell’idea dell’opera stessa) sia sul piano tecnico (montaggio, ripresa, supporti ecc.). Ora, il cinema sperimentale ha fondato le sue basi su una sorta di “protesta” verso gli stilemi istituzionalizzati della cultura dominante, nella mai risolta questione della definizione di arte e della definibilità di avanguardia e sperimentalismo, della definizione di non-esteticità, o meglio l’anti-esteticità che poneva, la questione della possibilità di poter usare qualsiasi cosa per fare arte. Questa riflessione implica che il “mezzo” sia non solo un semplice supporto, ma la base stessa su cui poggia l’opera e che costringe continuamente a “rileggere” e “re-interpretare” i concetti di arte e del linguaggio utilizzati. Si potrebbe dire che il mezzo modifichi il linguaggio, o comunque richieda un nuovo livello enunciativo ed interpretativo. Questo, a tuo avviso, non implica che il mezzo (il video nel nostro caso), costruisca e/o costituisca il linguaggio su cui si fonda l’opera? Si potrebbe, a tuo parere, affermare che il video non è linguaggio (ma fino a che punto o in quale misura non lo è?), ma che lo costruisce?
[m.g.b] Nello stesso modo in cui la tela o la creta non sono un linguaggio, cioè sono i mezzi con cui ogni artista si esprime in modo diverso (Rodin, Brancusi, Ricasso, Warhol&hellip e sempre e solo rimanendo unico e se stesso! E’ certo che al di là di questo concetto ogni “mezzo” ha una sua specificità tattile, nel nostro caso direi virtuale, ma l’opera d’arte non si definisce in questo particolare, è al di là di ogni definizione che, oltre ad identificarla (scultura, pittura, video) spesso la imprigiona.
[c.g.s] Non si dimentichi, tuttavia, che la registrazione, che è il grado zero del linguaggio video, ha prodotto un’ampia intersezione tra la video arte e la Performance art; ha svolto una funzione fondamentale per lo studium del “corpo proprio”, del gesto, della performance (penso a Bruce Nauman, al riflessione sul “feed-back con se stessi” di Vito Acconci, ma anche agli “art/tapes/22” di Bill Viola, al “primo” Bill Viola).
Il corpo in immagine dell’artista (i vari livelli della performance “di qua” e “al di là” del dispositivo di ripresa) assume una valenza differente dalla corporeità in quanto “figura” di tanto cinema sperimentale?
[m.g.b] Anche qui mi sento di ripetere un po’ quello che ho detto prima, secondo me la performance è stata una forma d'arte che si realizzava usando soprattutto il proprio corpo, ma che fosse in una galleria o attraverso un video, “al di qua” o “al di là” della telecamera, il senso del lavoro rimaneva intatto, solo la memoria del lavoro viene garantita dal mezzo video, piuttosto che dalla staticità delle fotografie che lo documentano. Qualche volta il mezzo tecnico ha sicuramente dato modo di ottenere tagli e risultati che dal vivo sarebbe stato impossibile controllare, ma questo è un aspetto “esteriore” all’opera stessa. Ma il video non è nemmeno solo performance, può essere davvero tutto ed altro.
[m.i] Un caso esemplare di relazione tra la forma videotape e la Performance art è dato da Florence Tape: clothing, walking, lifting, learing (1974) di Douglas Davis, opera “trasmessa” da Kassel/“Documenta” il 24 giugno 1974. Il videotape di Davis era un “materiale” della performance o la performance stessa?
[m.g.b] Il video ERA la performance stessa: l'artista aveva usato il mezzo video perché solo in questo modo ha potuto raggiungere il “livello” che si era prefisso. Il video Florence tape mostrato a Documenta non era una documentazione, né materiale per una performance live, ma LA performance stessa.
[c.g.s] Il videotape proprio nella sua dimensione tecnologica ha determinato una nuova forma di “autorialità” (una “pluri-autorialità&rdquo che ha messo in campo una relazione sottile tra gli artisti e i tecnici affatto diversa da quella “cinematografica” e forse differente rispetto agli ambiti sia traditi quali gli atelier sia inediti quali la Factory warholiana.
[m.i] Nei videotape realizzati l’apporto di tecnici quali Alberto Pirelli, Carmine Fornari, Raffaele Corazziari, Bill Viola, Andrea Giorgi e altri è sicuramente risultato indispensabile. Come si sono intrecciate in termini d’autorialità i rapporti tra l’artista e il tecnico. Quanto di un’opera appartiene all’uno e quanto all’altro? Si può parlare dunque di “pluri-autorialità”?
[m.g.b] Alberto Pirelli, che è stato con Carmine Fornari (Nuccio) fin dai primi inizi il tecnico, soprattutto audio, di art/tapes/22: è stato con loro due e naturalmente con Giancarlo che ho iniziato la grande avventura.
La collaborazione che abbiamo vissuto noi di art/tapes/22 è stata del tutto spontanea, al di là di ogni canone “professionale”, artisti e tecnici lavoravano davvero INSIEME, senza settorialità: questo non toglie che l’artista sapeva bene quello che voleva, ma spesso non sapeva come ottenerlo, e di qui la complementarietà assoluta con i tecnici.
Quando Vito ha fatto i cinque lavori con art/tapes/22 aveva costantemente il supporto, oltre che di Alberto Pirelli, di Lello Corazziari, che per un mese ha vissuto in simbiosi con lui: è stato come un prolungamento del suo occhio, del suo braccio. Quasi sempre invece Acconci si pone davanti a una telecamera fissa e realizza così i suoi videotape.
[c.g.s] Risulta interessante notare come nelle opere video di art/tapes/22 si tracci una complessa relazione concettuale tra “artista” e “autore”, anzi si può precisare una sorta di endiadi problematica “artista-autore”. Gino De Dominicis, ad esempio, che sembra sperimentare una poetica quasi artaudiana dell’opera (penso ai saggi di Jacques Derrida su Antonin Artaud e l’opera in quanto “scoria”, traccia persecutoria). 10
Videotape è un’opera che parte da un’interrogazione portata sul fatto che la performer chiede di vedere un videotape di De Dominicis e che il videotape che virtualmente le viene mostrato consiste però de facto nel Videotape di De Dominicis che si viene realizzando “a vista” sotto gli occhi dello spettatore, e che solo lo spettatore vede, continuamente interpellato dalla perfomer [cfr.]. Gino De Dominicis artista, nel fare Videotape, “mette in testo”, in chiave metalinguistica - [m.i] in una sorta di gioco di riflessi tra specchi - e criticamente De Dominicis autore («De Dominicis’ tape». Egli insiste propriamente sul doppio: l’artista e l’autore: l’artifex (che nell’etimo nomina il fare; comp. di ars, artis e -fex, tema di nome d’agente di facre), ma anche, nello stesso tempo, l’autore (nozione di formazione più recente, identitaria e stilistica, “firma&rdquo.
[m.g.b] Non capisco bene la domanda, anzitutto il video di Gino si chiama “videotape” e non “De Dominicis’ tape: su questo nastro è nata una strana confusione, le parole pronunciate di fronte ad uno schermo che non mostra altro che drops out, sono pronunciate nella matrice prodotta da art/tapes/22 solo e assolutamente in italiano (e non in inglese come appare dall’analisi fatta da voi), infatti a voce femminile chiede: - ma è questo il video tape di e Dominicis?- E, fuori campo, la stressa voce dell’artista risponde seccamente un –sì—A questo punto la donna di spalle aggiunge: - ma, io non vedo niente,- (e forse qualcos’altro, non vedo questo tape da quando ho donato le matrici all’ASAC, nel 1978, e da allora non ho mai avuto da loro una sola copia dei lavori, nonostante Wladimiro Dorigo mi avesse garantito, come era naturale, di farmeli avere tutti! Ho solo alcune copie che avevo nello studio al momento della donazione, ma questo e molti altri no), quindi si alza con rumore di sedia smossa, se ne va e dopo poco il monitor pieno di linee scomposte si spenge. Gino era un artista che aveva una grande, intelligente ironia e nel suo uso con il video (vedi anche i lavori fatti per Gerry Schum) 11 questa ironia un po’ magica viene fuori. Ma ogni artista è assolutamente un artista-autore rispetto al suo lavoro, qualunque sia il mezzo che usa per realizzarlo. Credo che poi la lettura di ogni opera, da parte di studiosi e storici, possa estrapolarvi riferimenti e citazioni che in realtà nella spontaneità dell’opera (in questo caso assolutamente ironica) l’artista non aveva assolutamente messo, almeno non coscientemente. Qui si tratta di un paradosso più che di un rispecchiamento, e anche della dichiarazione che “video” è tutto ciò che si muove nello schermo televisivo, nel monitor, e che non deve necessariamente essere “leggibile” dai fruitori.
[m.i] Richiamiamo per un attimo gli specchi: il monitor diventa una sorta di specchio in cui l’artista riflette se stesso, il mezzo e l’opera. Ciò esprime una auto-riflessività del medium, una sorta di narcisismo o semplicemente uno specchio attraverso il quale far emergere un nuovo modo di vedere, percepire, comprendere e analizzare il mondo?
[m.g.b] Sì, nella maggior parte dei casi (Rilke, Acconci, ad sempio) il monitor è assolutamente uno specchio attraverso il quale fare emergere l’opera, ma, al contrario dello specchio, il monitor è fedele, non capovolge destra e sinistra, è davvero “te”.
“Il monitor come specchio”: è indiscutibile che lavorare con il video diventi una disciplina narcisistica, ma più che autoriflessiva credo sia quasi sempre autoreferenziale.
Questa è una riflessione sul processo del lavoro dell’artista con il video, ma nel caso di Gino De Dominicis, ad esempio, e per la prima volta nei suoi lavori con questo mezzo (vedi quelli fatti con Schum), l’artista non vi appare, nessun narcisismo e nessun rispecchiamento, e questo è naturalmente intenzionale, un confondere le idee, sbalordire rispetto alle attese di chi si aspetti un lavoro più simile a quelli precedenti (Gino De Dominicis vi guarda, Tentativo di volo, Tentativo di produrre quadrati gettando un sasso nell’acqua: quest’ultimo non è il titolo corretto). Prima di arrivare a questo video, come dico nel mio libro, ne abbiamo provati molti altri, tutti assurdi e tutti impregnati di grande e geniale ironia.
[c.g.s] Ma non pensate che, forse, oltre la dimensione narcisista (piuttosto investigata da Rosalind Krauss) 12 vi sia, da un lato, una pratica marcatamente performativa che si precisa in video (il “feedback con se stessi” di cui parla magistralmente Vito Acconci, il lavoro sul soggetto enunciazionale di Taka Ito Iimura, le deformazioni espressive di Arnulf Rainer ecc.) e, dall’altro lato, si tracci un qualche legame strutturale tra “videotape” e “arte concettuale”?
[m.g.b] Qui mi sembra che si stia analizzando il mezzo video e non l’opera prodotta: certo, il mezzo video è questo e quello, e anche molto altro, un contenitore aperto alla creatività singolare di ogni artista, quindi può essere pratica performativa (Abramovic), deformativa (specchiante, Rainer) enunciativa (tautologica, Agnetti) o semplicemente supporto per un “quadro della mente” (Kounellis), per questo ribadisco che l’opera non è il mezzo e il mezzo non è l’opera.
Avrei voluto lavorare anche con Joseph Kosuth e con altri artisti concettuali, ma non è accaduto, solo Vincenzo Agnetti ha fatto con noi un video (il primo rizzato da art/tapes/22) "concettuale" [Documentario N. 2, 1973] in cui usa numeri invece di parole. D'altronde il video è assolutamente un mezzo duttile e libero. Ad esempio, io sono ora una grande ammiratrice di alcuni videoclip musicali e di alcuni commercials... mi ripeto ma pert me il video è un mezzo e come tale può contenere tutto. Certo che l'uso di questo mezzo, via via che la tecnologia si è fatta più sofisticata, ha sempre di più inciso sul lavoro stesso: un esempio è il lavoro di Bill Viola: non potrebbe che essere realizzato con il video, ma il risultato è comunque la perfezione di un dipinto manierista.
[m.i] Una domanda sui destinatari, sul ruolo spettatoriale: quali erano gli spettatori “ideali” (e non)? Come venivano presentati i videotape presso le gallerie, i musei, le fiere (Art Basel ecc.)?
(mgb) Gli spettatori? Alle varie fiere d’arte, nei rari musei, tutti i fruitori di quegli spazi, visitatori, galleristi, amanti dell’arte; nello studio fiorentino invece il mercoledì sera le porte erano aperte agli studenti universitari, ai rarissimi amanti dell’arte contemporanea.-.
Gli allestimenti all’interno del nostro studio per produrre i video (se non si parli dell’environnement di Daniel Buren che è stato “altro” dalla produzione dei video), non erano mai programmati, se non in casi particolari (Douglas Davis, Allan Kaprow ad esempio), ma “cercati insieme”, “inventati” via via, fuori orario, durante nottate piene di energie e di creatività, buon vino, discussioni e tentativi, fino a trovare esattamente quel punto magico che era già, anche se forse inconsciamente, nella mente dell’artista.
Gli allestimenti delle mostre o fire d’arte? anche in queste occasioni erano molto semplici, uno, due forse tre monitor all’inizio bianco e nero, qualcuno (spesso io stessa o Alberto Pirelli) di noi metteva via le cassette nel registratore. Un po’ più sofisticato forse l’allestimento dello stand che ho condiviso con Leo Castelli, dove vincemmo il premio “nuove tendenze”, ma sempre molto elementare, pulito, scarno come era necessariamente la cultura di allora-
Ma tutto questo è accaduto solo intorno al 1974, un boom di mostre di video arte, tutte insieme (Bruxelles, Parigi, Basilea, Colonia), poi più niente per anni. Per l'Europa si trattava di un "fenomeno" spesso discutibile (arte o non arte?): oltre alle videocassette venivano allestite delle videoinstallazioni bellissime (Nam June Paik, Peter Campus, Dan Graham, Ira Schneider ecc) e l'atmosfera era un po’ quella permeata di curiosità delle prime trasmissioni televisive.
. [c.g.s] Che cosa ha significato l’esperienza della mostra itinerante “Americans in Florence, Europeans in Florence” (Europe-USA 1974)?
[m.g.b] Soprattutto questa mostra ha dimostrato come il supporto NON SIA l’opera, il fatto che contemporaneamente in diversi musei sparsi nel mondo fosse possibile mostrare le stesse opere di artisti (non multipli, ma opere originali) ha sottolineato che è il MESSAGGIO ad essere l’opera (come nella musica, non lo spartito ma la musica che si ascolta) e non il supporto che lo contiene.
[c.g.s] Che cosa pensi del concetto di videotape come “opera unica”, “originale”?
[m.g.b] Con Vito Acconci e con Charlemagne Palestine abbiamo previsto cinque video numerati e firmati (su foto presa dal video) che avessero un valore maggiore delle altre eventuali copie. Forse a suo tempo ne abbiamo vendute una o due, ma questo concetto è assolutamente errato a mio parere: di nuovo si fa del supporto (la cassetta, il DVD o altro) un feticcio, un “oggetto" mercificabile, mentre l'essenza della videoarte è in ciò che si vede, che si percepisce, non che si tocca. La videoarte non é una serie di multipli, e nemmeno di copie.
Il problema del copy right è insolubile: nell'era della masterizzazione è utopistico pensare che certi DVD (o altri supporti) possano essere davvero protetti. È anche per questo che non si dovrebbe dare troppa importanza al video come "oggetto", tra l'altro l'opera realizzata con il mezzo elettronico dovrebbe per sua natura essere visibile soprattutto su larga scala, attraverso la televisione (Gerry Schum aveva fatto la cosa giusta) e quindi, non come un "oggetto" vendibile, il fatto che molti usufruiscano di un'opera d'arte, infine, dovrebbe essere assolutamente una cosa da augurarsi! È il concetto che dovrebbe rinnovarsi, è assurdo continuare a vedere anche nella video arte un "oggetto" da tenere sul tavolo come una scultura.
[c.g.s] Assolutamente, ma non è solo un fatto di copy right. Il problema ne convoca però un altro, quello della dimensione significante dell’opera elettronica, dell’opera a carattere tecnologico. Achille Bonito Oliva dice in modo illuminate che l’artista (l’autore) «ha i suoi tempi» vive, muore, mentre «l’opera gioca sulla durata», ma «la durata è in qualche modo garantita non dal significato, ma dal significante. Il significato è storico, è contingente, viene riassorbito, masticato, eliminato superato (&hellip»; «il significante è proprio la possibilità di fermarsi ancora una volta di fronte a un’opera di fronte alla Gioconda di Leonardo, davanti a questo enigma che in ogni caso rappresenta, l’androgina, il maschile e il femminile secondo i momenti culturali, le mode, le sensibilità del tempo. Ecco l’importanza del significante, è questa capacità di slittare». 13 Il “significante” è la riserva del senso, ciò che rende possibile che esso possa essere ri-attualizzato ciò che fa sì che ci si possa fermare ancora e ancora davanti a un’opera.
E il “significante” è posta in gioco per qualsiasi operazione di restauro, anche per quella semplicemente preservativa, anche per le arti tecnologiche. La pellicola e il nastro magnetico pongono in evidenza come la “materia” di cui si sostanzia l’opera ne definisca la forma (o quantomeno importanti aspetti formali). Detto altrimenti, il supporto presentazionale, ciò che consente la manifestazione espressiva (audiovisiva) - “il significante” - dell’opera (del videotape) è anche materia costitutiva. Ed è propriamente qui che agiscono le pratiche di restauro. Così che per saper “leggere”, interpretare i disturbi del segnale, l’omogeneità segnale-rumore, le lacune, le discontinuità ravvisate, nelle migrazioni da supporto a supporto (1 pollice, 1/2 pollice, U-matic, DVD ecc.) è necessario mettere in campo una serie di competenze che debbono tenere conto della singolarità di ogni opera, di ogni videotape, comportata dall’unicità dell’azione artistica, dal pensiero che vi è implicato e dispiegato, dalle tecniche di esecuzione, ma anche della conoscenza dei materiali “originali” di supporto e di quelli di migrazione, della piattaforma tecnologica d’epoca (le “macchine” stesse sono dunque un documento storico) e del contesto di ricezione spettatoriale.
[m.g.b] Ho già detto che, al di là della scarsa importanza che io do al supporto rispetto all’opera in sé, sono d’accordo che proprio nel supporto stia la possibilità di leggere l’opera e che quindi questo sia di grande importanza, qualunque standard rappresenti, ma non facciamo del “luddismo” né in positivo né in negativo identificando la macchina, il supporto con il soggetto di cui stiamo parlando!
[m.i] Nel 1977 si “conclude” l’avventura di art/tapes/22 con la cessione all’ASAC degli archivi della società e la chiusura della sede di via Ricasoli 22. Oltre ai ricordi e alle emozioni di questa esperienza unica, che cosa resta (o è rintracciabile) oggi dell’esperienza di art/tapes/22, nelle opere degli autori che vi hanno preso parte? “Dopo art/tapes/22”, cosa si può trovare di art/taspes/22 nell’arte contemporanea? L’eredità di art/taspes/22 è stata raccolta e portata avanti?
[m.g.b] Prima di art/tapes/22: Bruce Neuman, Gerry Schum, Nam June Paik, Dan Graham, Campus, Ira Schneider, Wolf Vostell e tanti tanti altri importantissimi lavori. “Dopo”? Credo che siano state realizzate delle magnifiche opere con questo mezzo, mi pregusto già l'esplorazione capillare della produzione contemporanea che sto per affrontare per realizzare la grande rassegna di video arte che stiamo progettando con Valentina Valentini della quale per ora non voglio parlare, anche perché è solo un sogno un po’ utopistico data la situazione attuale e il monopolio dei fondi destinati alla cultura e quindi alle precedenze destinate dai curatori dei grandi eventi nei musei.
[c.g.s] Pensi che le cause che hanno "motivato" e indotto la cessione del corpus art/tapes/22 all’ASAC siano ancora presenti nel sistema dell’arte contemporanea?
[m.g.b] Si è trattato di una ideologia molto legata alla situazione storico-etico-politica di quegli anni (io la penso ancora così che privilegiava assolutamente l'importanza del lavoro dell'artista e anche della produzione, quindi il non spicciolare un percorso di vita, di entusiasmo, di lavoro comune, nel caso di art/tapes/22, mantenendo "insieme" un corpus che nella sua specifica diversità rimane comunque un tutt'unico, un'importante parte di storia dell'arte scritta dagli artisti che hanno lavorato con me, piuttosto che privilegiare una visione speculativa che non abbiamo nemmeno mai preso in considerazione. Io e Giancarlo, mio marito, non potevamo più sostenere in prima persona l’onere immenso della produzione dei video che era stata tutta e solo sulle nostre spalle: le strutture fiorentine sono rimaste sorde ad ogni appello, non avendo forse compreso l’importanza del lavoro svolto e in fieri, alla Biennale invece c’erano persone come Carlo Ripa di Meana, Germano Celant, Vittorio Gregotti, Wladimiro Dorigo, e Ronconi stesso che era entusiasta dei video di art/tapes/22, tutti amici di grandi qualità intellettuali e lungimiranti!
[m.i] Dal tuo punto di osservazione attuale, quali percorsi sembra intraprendere la videoarte contemporanea?
[m.g.b] Un percorso frattalico libero, si va incontro ad una nuova estetica più lieve e orizzontale, ed il video con la sua velocità e la sua legittima divulgazione attraverso il web sarà una scorciatoia ormai indispensabile per esprimersi, in molti settori della nuova cultura.
[c.g.s] Ma art/tapes/22 è ancora nel futuro. Il restauro preservativo del corpus art/tapes/22 ha consentito di rendere nuovamente “visibili” i videotape limitando l’evoluzione degenerativa della “materia”, del nastro magnetico, dei master e/o delle copie dei videotape che restituendo nuovamente la loro trasmissibilità ne ha definito non solo l’aspetto memoriale (in quanto documenti storici), ma anche ne ha riattualizzata l’esistenza stessa (in quanto opere).
Che cosa è possibile aggiungere a questa nuova attualità? Che cosa è possibile vedere o ri-vedere dell’arte contemporanea attraverso questi videotape d’artista?
[m.g.b] La storia di una grande, libera avventura le cui tracce sono con grande evidenza delle bellissime opere d’arte.
esperienza/conoscenza: alienazione o nuova era?
L'informazione così veloce e allargata, così geograficamente globale, sembra non apportare più nessuna esperienza/conoscenza, come se le cose accadessero come non assimilabili, comprensibili (assumibili nel profondo) e quindi con il rischio di rimanere soltanto "storie" commestibili, ma sempre esperite da altri, senza indicazioni per l'uso per poterne cogliere la verità, storie soltanto al livello di veridicità. Lo spazio, inteso qui come sosta riflessiva, é in effetti espropriato dall'avvento di una nuova dimensione fisica: un tempo, l'attuale, storicamente intermediario tra l'ieri ed il domani, che scorre di pari passo alle immagini virtuali che si susseguono, ci inseguono e ci perseguitano senza lasciare posto alla riflessione. Questo nuovo spessore del tempo tende a fare evaporare lo spazio, sia fisico che metafisico. Nella cultura così detta "umanista", il pensiero creativo e formativo ha sempre presupposto un luogo interiore dove fosse possibile la riflessione e quindi l'acquisizione dell'esperienza/conoscenza che, formata dal vissuto individuale (inteso come ricezione, reazione, assimilazione relativa al sè, si consolidava attraverso il personale confronto con quanto sperimentato "ora" e "intorno". Ogni informazione verbale e/o visiva ha dovuto proporsi come classificabile, con una sua specifica qualità, contenere in sé il valore che ne permettesse il collocamento come elemento accrescitivo e conoscitivo nel labirinto individuale dell'esperienza, per non rimanere soltanto un "notizia qualunque". Questo importante confronto con la realtà, tarato dalla personale esperienza/conoscenza (la propria cultura quindi), sembra ora venire sottratto dall'attrazione ipnotica delle immagini che scorrono continuamente, facendo evaporare, con l'accumulo che viene proposto/imposto, l'eventuale spessore, lasciandole quindi solo al livello di informazione. La velocità con cui le queste informazioni appaiono e scompaiono, le colloca quindi come un rumore di fondo a un niente: spogliate dal valore tangibile di "realtà", la loro verifica risulta alienata dalla possibilità di venire confrontata con l'io di ognuno, "condivisa", assimilata e trasformata infine in esperienza/conoscenza. Il risultato è un'omologazione generale di comportamento, uno standard di persone molto simili tra loro per mascheramento, aspettative e reazioni agli stimoli della vita.
Sembra che, senza il confronto tra ciò che accade e le esperienze personali, non possa esistere nessuna conoscenza e che, senza la conoscenza (con valenza sempre individuale) non possa esistere la personalità, il pensiero singolare: alla fine é la "persona" come modello unico che sembra non esistere più. La "persona" ci appare ora l'attore/comparsa di un teatro caotico e ripetitivo al quale sia lasciato solo lo spazio per immagazzinare le notizie degli eventi che, divenendo in tal modo virtuali, non possano venire elaborati, metabolizzati, adattati alle necessità di ognuno. E' come se venisse a mancare, quindi, l'individuo. Una vita senza luoghi per le scelte, una realtà in cui ogni notizia comunicata per immagini può solo venire ingoiata frettolosamente ed espulsa altrettanto rapidamente per fare continuamente posto ad altre immagini che non danno strumenti per elaborarle, sembra togliere quello spessore di riflessività che, "rispecchiando il se", ha sempre permesso all'informazione di divenire esperienza/conoscenza e di formare così la personalità/persona.
Alienazione pura o un nuovo genere umano?
La necessità di esorcizzare l'ansia di questo mutamento preannunciato, genetico/storico, la paura di dissolverci come individui in un tutto indistinto, apre alla tentazione di credere di essere invece sulla soglia di una radicale rivoluzione culturale, dove l'orizzontalità/superficie che sta soppiantando la verticalità/profondo sarebbe soltanto un punto di vista strabico rispetto a quanto perseguito nell'ultimo millennio ma che in realtà, proprio per l'estraneamento dal sè, prometterebbe una visione meno egocentrata che darebbe alla Conoscenza una valenza maggiormente legata alla quantità che alla qualità e che forse proprio a causa della somma degli accadimenti esponenzialmente crescente, instaurerebbe la necessità di una navigazione a vista sulla cresta dell'immenso magma di fatti con i quali i mass media ci sommergono, uno scivolare sopra le cose, forse anche una pulsione a rinunciare alla individuale maniacalità della specializzazione. La nuova forma del sapere non si avvarrebbe più, in tal modo, dell'esperienza personale, che scomparirebbe del tutto, ma soltanto di una esperienza mediatica e "altrui", virtuale e alienata dalle emozioni, un accomunamento imposto da una ipotetica nuova pratica di vita che cancellerebbe ogni dimensione colloquiale ma che, per compensazione, permetterebbe la fruizione di un sapere condiviso (parademocratico quindi) al quale accedere tutti, in qualsiasi momento, una sorta di omogenizzazione della conoscenza e della coscienza che, non usufruendo più delle emozioni private, segnerebbe sicuramente anche la fine della poesia, intesa come metafora delle sensibilità individuali. Sarebbe una società assolutamente sintetica, nella quale l'informazione leggera e globale alienerebbe gli esseri umani dalle responsabilità di testimoniare la propria individualità, quindi dalle scelte: non più una direzione ma mille e una, mutevoli, volatili, imposte, intercambiabili. Saremmo in un mondo dilatato a tal punto da divenire diradato, liso nel suo stesso ordito, quindi trasparente e permeabile al tutto, una presunta nuova civiltà dove il meno sarebbe necessariamente il più.
Ma questo non è e non può essere realmente ciò che ci attende, né può essere o divenire la futura storia dell'umanità.
Cerchiamo di non fare quindi una confusione tra il sapere ancora possibile e il sapere veicolato dai media, tra l'esperienza possibile e la modalità di fruizione della cultura mediatica di massa, lasciamo una porta aperta al seme dell' individualità: forse esiste ancora una globalizzazione delle idee, ma anche una globalizzazione "buona", veicolata dagli scambi umani reali, dalla solidarietà, dalla reale curiosità, anche se questo può apparire un fenomeno assolutamente minore e trascurabile rispetto alla globalizzazione negativa e omogeneizzante che tracima tutto e che, delle culture particolari, dei saperi particolari, fa sopravvivere solo ciò che è esportabile e dunque solo gli aspetti banali, e anche se é proprio quest'ultima ad essere perfettamente compatibile, anzi ne discende direttamente, con un sistema di tipo oligarchico in cui piccole minoranze (detentrici di enormi strumenti di potere economico, politico, culturale) di fatto decidono per gli altri.
E' quindi urgente mantenere ben distinte: da una parte l'ansia di mantenere a tutti i costi una identità (ansia legittima in un mondo che annulla la persona), anche contentandosi di un eventuale modello riduttivo che si confonda con i flussi mediatici, partecipando passivamente alla dimensione globale che abbiamo chiamato "nuova cultura", e dall'altra invece credere fortemente nell'importanza di comprendere quali sono le nostre radici culturali, quindi trasmetterle costantemente, comunicarle, mantenerle tenacemente vive e vivaci nei pochi spazi individuali che ci sono ancora concessi: l'esempio, il confronto diretto con l'immediato altro, la profonda e inalienabile libertà del discernimento e quindi delle scelte, a cominciare da quelle piccole e quotidiane, ed essere assolutamente consapevoli che questa sia la sola vera strada per poter mantenere una ragione lucida e per non aver paura, ora si, di perdere se stessi nel confronto con l'altro e con l'altrove.
estraneità
Viviamo un mondo spersonalizzato dove la singola persona non esiste più, ma solo i fatti, i numeri, le tragedie, i corpi, tutto ad uso della vista, tutto virtuale, senza partecipazione emotiva, senza rispetto, senza nomi, senza storie vissute singolarmente, 30 morti, otto grandi seni perfetti, ben riempiti dal silicone (ma cosa importa in un mondo dove la forma omologata ha cancellato il concetto di realtà e quindi di vera bellezza?), otto glutei roteanti, 300 milioni di affamati, 170 straziati da una bomba, 4 kamikaze...l'uragano ha portato alla morte 150 persone..ma CHI? persone che non sono un "io", quindi non sono soggetti, non come "il me", ma numeri, apparenze, immagini (della tv), la stessa contemporaneità con l'evento, quindi lo spettacolo, l'informazione in diretta, rende sempre di più la vita egocentrata e ognuno di noi, spettatore assolutamente intoccabile, preservato, quindi al di sopra, quindi semidio, è protagonista unico della visione di un grande spettacolo altrove ed intorno, mai QUI, tanto globale da abbracciare tutti i paesi che divengono vicini, reali e immaginari insieme, ed anche oltre: l'uomo sulla luna era una storia di fantascienza, "l'io" non c'era, né c'é sapore nelle immagini di cibi pubblicizzati, né alcun "io" nelle tragedie di fame, di violenza, di delitti sessuali che accadono solo su uno schermo: tutto diventa puro spettacolo, quindi comunque paradossalmente intrattenimento, e quindi divertimento nel senso di distrazione -estraneazione. E' l'occhio ad essere divenuto l'organo principale che ha soppiantato anche l'anima, le emozioni, l'intuizione, i sapori, i profumi, i fetori, la qualità tattile delle cose, la vischiosità del sangue che non sporca, niente fa più paura e quindi diventa inutile anche l'astuzia (intelligenza) di difendersi da qualcosa che non é mai reale, mai accanto a noi, mai minacciosa, un qualcosa che accade sempre ad "altri", altrove ed é quindi sempre solo spettacolare e spersonalizzata, disanimata. I ragazzi imparano questa distanza che cancella la compassione, l'amore, già dai videogiochi, la televisione completa l'estraneamento completo dalla vita vissuta, il concetto di realtà rimane quello minuscolo delle proprie soddisfazioni, sempre realizzate con minori attese, minori pretese, perché già colmate da vite di altri (le soap operas), amori di altri, case brutte-lussuose vissute attraverso altri, un appagamento virtuale che procura una falsa e sempre minore adrenalina indotta e una sempre minore necessità e capacità di ricevere e dare amore. E' un mondo di esseri assolutamente soli, assolutamente espropriati dal pensiero e dai desideri, un mondo in cui accade una trasmigrazione virtuale di ogni persona (personalità in un'esistenza perfetta capace di dare tutto a tutti: togliendo la coscienza dell'altro, il sè diviene autonomo, estraneo, alieno e quindi "soddisfatto" in quanto derubato da aspettative reali, privato dalla necessità di comunicare (dare e ricevere), forse anche sperimentare, andare oltre il proprio cerchio che già racchiude tutto, già appagato dalla quantità immane di situazioni disponibili per una vita emotivamente virtule, situazioni reali e realistiche che è possibile ricevere-vivere senza rischi attraverso le immagini rappresentate in internet e in tv e che propongono cose comunque tremende che succedono davvero "altrove", una verità ad effetto quindi, manipolata accuratamente nella scelta delle immagini proposte, nella censura di altre, ma assolutamente reale (e qui é la trappola) ma un reale che accade sempre e comunque in un altro luogo mentale e fisico, inestistente al tatto e alle sensazioni che gli diano forma e sostanza, un altrove capace di creare in noi un nirvana artificiale, una a-motività ebete e alla fine capace di perversioni atroci proprio perché vissute sempre al di là del proprio io, essendo, in questo modo ricettivo-passivo, ormai anestetizzata ogni coscienza, l'esistenza della quale é solo possibile in un rapporto profondo con l'altro, con ogni altro dei miliardi di altri che vivono, pensano soffrono, che sono un "io" come lo siamo noi. Tolto questo é stato cancellato Dio.
lettera a un'amica, adelina
lettera a un'amica, adelina
In Italia negli anni 1970/80, una testimonianza di Maria Gloria Conti Bicocchi, Santa teresa, La Beccana, Via Aurelia km. 225 (Follonica)
Adelina, mi hai chiesto di raccontare per un tuo progetto quello che affiora della lontana esperienza di Santa Teresa, quella solitaria casa in mezzo alla campagna maremmana, ridisegnata dall’intelligente e raffinata architettura di Giancarlo, proprio per la speciale funzione che ha poi avuto di accogliere tanti amici, tappa importante delle visite degli artisti stranieri in Italia in quegli anni e in particolare in quel luogo. Lo faccio molto volentieri, con te che hai in prima persona fatto parte di molte di quelle serate, di molti di quei progetti. So quindi che il tuo è un ascolto particolare, come se fossi un pò tu stessa a ricordare. Ecco.
L'Italia è sempre stata un luogo di conquiste, nei due sensi, per conquistarla e per esserne conquistati. La natura, la cultura, le persone che la abitano, la disponibilità che nasce forse dalle varie dominazioni straniere ma che poi la storia tramuta in dignitosa ammirazione verso "l'altro", verso l'estraneo che porta la propria cultura ed assimila a sua volta l'essenza del nostro paese, hanno sempre fatto parte della magia del viaggio in Italia. Per l'esperienza che ho avuto e per la quale mi reputo molto fortunata, le numerose visite a casa di Giancarlo e mia (Santa Teresa a Follonica) di artisti italiani e non, hanno rappresentato per ben venti anni, dal '72 in poi, il fulcro non solo del lavoro che facevo allora con il videotape, (l'art/tapes/22 che per sei anni ha prodotto fra i primi lavori video in Europa, lavori che testimoniano un'arte molto particolare, quella degli anni '70, in gran parte effimera perché legata al momento della performance, di cui costituiscono una testimonianza unica), ma soprattutto del sentimento dell'amicizia. Le amicizie nate infatti allora, quelle vere, mi accompagnano ancora, insistentemente, nelle tappe della mia vita ora così diversa.
Credo che, innanzitutto, il fascino che l'Italia rappresentava e rappresenta per lo sguardo speciale di un artista, si sintetizzi in una concezione del lavoro che da noi non è legato a regole rigide, ma solo alle capacità personali e intuitive dei collaboratori, delle persone che lavorano con gli artisti: ecco, qui si lavora "con" e non "per" gli artisti, e questo atteggiamento, che rispecchia una profonda sensibilità, cambia, rovescia, direi, ampliandolo a tutto tondo, il "luogo" anche mentale del lavoro, lo rende carico di attese e quindi di accoglienza, e l'opera finale è così partecipe della particolare ricchezza umana che lo ha reso possibile. Se mi volto indietro nella sfera del ricordo, sembra anche a me "straordinario" che tanti artisti, ricchi di talento e di poesia, abbiano fatto della nostra casa un luogo del parlare, spesso del confrontarsi tra loro, del vivere il quotidiano in grande semplicità e insieme grande profondità e allegrezza. Ma allora, quando questo nucleo così straordinario si formava, la cosa ci appariva assolutamente normale e naturale. Ho vissuto fin da bambina, a Fiesole (essendo figlia di un artista, Primo Conti), accanto a grandi uomini che erano ospiti dei miei genitori, ed ho così conosciuto e giocato, senza meravigliarmene, con De Chirico, Picasso, Papini, Strawinskij, solo per citarne alcuni, e mi è stato facile vivere le serate di Follonica (con artisti come Kounellis, Acconci, Buren, Kosuth, Mario e Marisa Merz, De Dominicis, Boetti, Pistoletto e molti altri) come serate di meravigliosa amicizia e dialogo, en famille, dove bambini e adulti si mescolavano naturalmente e dove mai è entrato il fantasma di un qualsiasi profitto reciproco. Da questo si capisce che quelli erano davvero altri tempi. Ad uno ad uno gli artisti stranieri venivano in Italia dove trovavano una situazione eccellente di gallerie pronte ad esporre i loro lavori, a dare loro modo di lavorare in loco e persone di eccezionale sensibilità e disponibilità, ma non un mercato altrettanto allettante; è chiaro che i valori dello spirito erano molto più importanti di quelli economici e questo faceva sì che la qualità degli incontri, delle mostre, dell'amicizia fosse una qualità assolutamente speciale che a parere mio è difficile ritrovare ora. Ma forse è la voce della nostalgia che mi fa dire questo, infatti certi ricordi mi affiorano come attraverso il tremolio che il calore dell'estate crea sull'asfalto lucido, come il miraggio di un'oasi.
Ecco che l'Italia in questo modo è stata conquistata dagli artisti stranieri, ma a sua volta li ha conquistati, rendendoli spesso abitanti permanenti dei suoi luoghi: Kosuth vive gran parte dell'anno in un paese della bassa Toscana e così Dibbets; Buren ha abitato per anni una casa nel volterrano, a S. Ippolito ed ora passa qualche mese nell'isola di Procida, Sol LeWitt ha una bellissima casa a Spoleto, Max Neuhaus vive a lungo a Ischia e altri ed altri ancora si stabiliranno da allora in poi in case disseminate nella campagna, vivendole sempre con grande rispetto e amore. Infatti io credo che gli artisti siano gli abitanti di una grande patria unica, il cui linguaggio è loro comprensibile e dove in realtà nessuno vi è straniero.
Molte persone, oltre a Giancarlo e me negli anni di cui sto parlando, hanno dedicato all'arte, soprattutto agli artisti direi, oltre al proprio lavoro qualcosa di più importante: il loro quotidiano, la loro vita quindi. Persone che sono state molto più che galleristi, come Marcello e Lia Rumma, Lucio Amelio, Franco Toselli, Marilena Bonomo, Lucrezia De Domizio con Bubi Durini, molto più che collezionisti, come Graziella Lonardi Bontempo, Vittorio Franchetti, Angelo Baldassarre con sua moglie, Giuliano e Pina Gori, Giuseppe Panza di Biumo, più tardi Giuliana e Tommaso Setari, creando quell'atmosfera di cultura estesa attraverso tutta l'Italia, dove i confini tra casa e luogo di lavoro, tra città e luogo di riflessione e di vacanza, tra durezza e bellezza si estendevano e si dilatavano facendo del nostro paese, aldilà della retorica, il luogo dell'arte per eccellenza. Succedeva lo stesso anche da te a Ginevra, ricordi?
Così il filo diretto con l'Italia rinascimentale, "l'Italia dell'arte", continua fino ai nostri giorni e non con minore prestigio. Gli artisti che venivano intorno agli anni '70 in Italia trovavano aperte per loro case e luoghi carichi di storia (ricordo in particolare in Toscana la villa di Artimino, del Buontalenti, dove Vittorio Dapelo era sempre disponibile) e venivano accolti con la semplicità del vero Ospite, senza mecenatismo, ma con uno scambio paritario di idee e di rapporto che dovrebbe essere la base di qualsiasi incontro. I critici d'arte stessi, Germano Celant, Achille Bonito Oliva e qualche volta Bruno Corà, facevano parte di questo quotidiano e indubbiamente anche per loro lo scorrere della vita scandito da un tempo "normale" condiviso con gli artisti, dava risultati eccellenti anche al momento dello scrivere. La dialettica era affilata a lungo, con calma, con reciproca generosità e spesso l'eventuale testo che seguiva era un testo scritto a quattro mani. Non so se questo accada ancora né se esistano ancora degli spazi fisici e mentali come Santa Teresa, dove l'arrivare era naturale anche senza invito, tappa di un percorso di conoscenza più vasto, che avrebbe portato gli ospiti dalla Toscana poi verso il sud, verso gli altri amici. Non so se questo interesse disinteressato sia ancora il perno del "parlare d'arte"; certamente so che gli artisti continuano a venire da noi dalle altre parti del mondo, da tutte le parti del mondo, anche da quelle più disagiate e più escluse dai ritmi della cultura, ci portano i loro lavori e fanno da noi delle mostre. Perché in fondo è al "mondo dell'arte" che appartengono, ovunque essi si trovino.
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lanterna magica testo di bill viola
Viola's impressions on virtual reality, misticism and magic lanterns.
Bill Viola
Sono un neofita della realtà virtuale, di cui ho seguito lo sviluppo da una certa distanza ma con molto interesse. Al momento sono impegnato nello sviluppo del mio primo progetto di realtà virtuale, una installazione creata per una mostra al Los Angeles County Museum of Art, intitolata Hidden in Plain Sight of Illusion and the Real in Recent Art. Vi parlo quindi non in qualità di esperto di realtà virtuale, ma come videoartista con un esperienza che ammonta ormai a venticinque anni di lavoro, svolto più che altro creando installazioni e ambienti che occupano intere stanze, combinando suoni, effetti acustici e proiezioni in spazi architettonici che coinvolgono lo spettatore dal punto di vista fisico, psicologico ed emotivo. Pertanto esporre qualche appunto sulla realtà virtuale, non come riflessione su una pratica, quanto come una serie di commenti e osservazioni sul modo in cui il mio lavoro si è trovato ad anticipare, contemplare e infine collimare con il concetto di realtà virtuale.
Voglio iniziare con una citazione che risale a un incontro di molti anni fa:
"é impossibile esprimere a parole la bellezza di queste immagini. Qualsiasi dipinto sembra morto a confronto: questa la vita in sè, anzi, qualcosa di più complicato ed elevato, se solo sapessi trovare le parole per descriverlo".
La citazione risale al 1622. Siamo in Olanda, la nostra guida Constantijn Huygens, segretario della principessa di Orange. Sta descrivendo una camera oscura, quella straordinaria immagine ottica che riesce a ritrarre il mondo in tempo reale e in tutta la sua vivacità. é il mondo reale intrappolato in una stanza, o proiettato su uno schermo luminoso, sul quale brillano la possibilità, l'autorità, l'incertezza e la tensione di un surrogato dell'esistenza. Anche avvalendosi del sistema ottico più primitivo, l'immagine si manifesta agli occhi di Huygens e di riflesso anche al nostro sguardo in tutta la sua potenza ontologica. Ovvero, l'immagine esiste, incarna l'Essere, o un essere: una presenza che avvertiamo quasi istintivamente, e che è responsabile del suo puro fascino che ci conquista un fascino che sfugge all'analisi, per parlare direttamente ai nostri corpi.
Ecco un'altra citazione, che ci viene da un tempo ancora pi lontano. La dobbiamo a Ibn Arabi (1165-1240): mistico, poeta e filosofo, ribattezzato "Il sommo maestro" e, a ragione, ritenuto una delle menti più brillanti di tutto l'Islam, autore di più di settecento libri e, sfortunatamente, poco studiato in Occidente. La sua conoscenza la dobbiamo soprattutto al suo pi fedele interprete occidentale, Henri Corbin, il più grande studioso francese che, in questo nostro secolo, si sia dedicato alle religioni orientali.
"Tral'universo che pu essere capito solo grazie alla percezione intellettuale più pura [il regno assoluto del divino] (l'universo delle intelligenze dei cherubini) e l'universo percepibile ai sensi, si apre un mondo intermedio, il mondo delle Idee-Immagini, figure archetipe, sostanze rarefatte, materie immateriale. Questo mondo reale e oggettivo, opaco e tattile quanto gli altri mondi intelligibili e sensibili: un universo intermedio in cui lo spirituale prende corpo e il corpo diventa spirito".
Parafrasando Arabi, Corbin ha definito questo spazio "Mondo Immaginale": uno spazio che non è qui nè là, e che, tuttavia, è reale. Un mondo fatto di immaginazione, idee, immagini, sogni, ricordi, in un certo senso il mondo più importante per l'essere umano. Il Mondo Immaginale si avvicina molto al mondo in cui ci stiamo rapidamente abituando a vivere l'universo immateriale e reale dei telefoni, dei media, della TV, di Internet, dell'email e delle immagini elettroniche. Ciononostante Ibn Arabi si riferiva a qualcosa che trascendesse le nostre semplici strategie di marketing. é la componente vitale, esistenziale e ontologica che definisce il Mondo Immaginale; e torniamo così alla condizione fondamentale espressa dalla camera oscura, e, ancora prima, dal suo antenato, l'immagine iridescente che si distende sulla nostra retina anche adesso, proprio nel momento in cui vi parlo.
La realtà virtuale comincia a rivelarsi una pratica molto antica. Il suo legame con la camera oscura e documentata per la prima volta in Cina nel nono secolo richiama una serie di costanti che vale la pena di elencare:
L'immagine é una costruzione artificiale; esiste nel tempo reale (cioè, nel tempo dello spettatore) ed è soggetta alla sua manipolazione; si lega allo spazio in cui vive lo spettatore.
Da questo punto di vista, la realtà virtuale ci appare come l'ultimo segmento di un lunghissimo processo storico, un legame evoluzionistico che collega la tecnologia del ventesimo secolo ai dipinti nelle caverne del paleolitico, alla camera oscura, alla prospettiva rinascimentale, agli affreschi incorniciati in spazi architettonici e all'antico desiderio di abitare un'immagine, di entrarvi.
Sono questi i miei punti di riferimento, ed alla luce di queste posizioni e della mia esperienza che ho assistito allo sviluppo della realtà virtuale in tempi pi recenti. Gli appunti che seguono sono solo semplici riflessioni personali.
Nella realt virtuale, credo che questa sensazione sia una delle prime che ci colpiscono, l'immagine grafica, tradizionalmente considerata una registrazione di entità già esistenti (una traccia, un segno su una superficie), conquista quella fluidità radicale, quella volatilità, quella stessa casualità e quelle potenzialità metamorfiche proprie dell'attimo presente. Non sto parlando dal punto di vista linguistico o intellettuale: uso una logica spaziale. Nella realtà virtuale il tempo è sempre coniugato al presente. Nella maggior parte dei lavori che si avvalgono della realtà virtuale si distende una specie di inconcepibile "presente infinito": gli oggetti sono legati l'un l'altro dallo spazio, non dal tempo. Anche se li incontriamo in un dato ordine, in una sequenza, gli oggetti sembrano curiosamente divincolati da quella logica: vivono in universo eterno, senza tempo. L'attimo presente si trasforma anch'esso in spazio, illuminato dalla percezione diretta, riproponendo una situazione che molti filosofi e osservatori della natura umana hanno cercato di descrivere nel passato.
Nel mondo virtuale il desiderio diventa un elemento operativo e una caratteristica individuante. Mi piace pensare alla realtà virtuale come una forma d'arte che pratica la scultura della curiosità e del desiderio: la sua forma più vera è universale e fondamentale quanto la sequenza tipicamente infantile "vedo-tocco-prendo". Ho sempre pensato che la vista fosse l'agente responsabile del movimento e dell'azione, mentre la sequenza azione/reazione una nuova forma compositiva, che scavalca l'importanza dell'immagine e impone la necessità di rivedere ed espandere i metodi tradizionali di discussione e insegnamento dell'arte, nutriti di pregiudizi fondati sulla prevalenza della vista e su immagini e oggetti statici.
Il linguaggio della realtà virtuale è prevalentemente spaziale. Di solito si cerca di collegare lo spazio apparente dell'immagine con quello familiare, reale in cui si muove lo spettatore: gran parte degli sforzi della realtà virtuale si concentrano sulla costruzione di uno spazio continuo più ampio, contiguo e parallelo al nostro spazio reale. Insomma, uno spazio nuovo, provvisto di un certo orientamento e di certe dimensioni, alle quali lo spettatore pu accedere solo in parte, a seconda della posizione che mantiene in un preciso istante. L'efficacia della realtà virtuale si misura proprio sulla base delle conquiste operate nella costruzione di questi legami. Ed è parte essenziale della realt virtuale la cognizione che esistono vaste porzioni del mondo immaginario che restano invisibili o inaccessibili dal punto di vista in cui ci troviamo in un dato momento: ci sono porzioni che sono dietro di noi, altre al di l dell'orizzonte, altre ancora sono oscurate da un qualche oggetto. Quindi, nella realtà virtuale, ci sono più immagini di quante effettivamente colpiscano il nostro occhio.
Questa enfasi sull'orientamento spaziale come modalità operativa introduce l'immagine grafica direttamente nello spazio del corpo, segnando un importante passo nella storia dell'arte. Credo sia una conquista totalmente nuova, per quanto sia uno sviluppo radicale delle premesse inscritte nei grandi cicli di affreschi inseriti in ambienti architettonici, secondo il modello che si sviluppa tra il tredicesimo e il quindicesimo secolo. Lo scarto pi evidente è che oggi le immagini hanno un comportamento, e la loro forma soggetta alle azioni e intenzioni dello spettatore.
Il luogo, il locus dello spazio reale, è il corpo umano, la convergenza di tutte le coordinate spaziali: perciò la creazione dello spazio nella realtà virtuale prima di tutto è la creazione e la personificazione dello spettatore. Le coordinate del corpo diventano il punto di riferimento dell'ambiente circostante, sia di quello interno sia di quello esterno. Il problema non é ciò che vedi nel mondo virtuale, quanto piuttosto il posto che occupi, il "dove sei": il senso del sé, dello spazio e del corpo a costituire il centro dell'esperienza e della costruzione di realtà virtuali. Ed in questo senso che si può cogliere il legame tra realtà virtuale, Brunelleschi e l'invenzione della prospettiva lineare nell'Italia del rinascimento.
Ogni volta che ci si rivolge al corpo invece che all'intelletto, ci si imbatte in una serie di pericoli. La funzione principale del movimento é la conoscenza. Un anatroccolo che venga trascinato dalla madre in un cesto, invece di seguirla passo a passo, non subisce alcun imprinting. La sequenza tipicamente infantile "vedo-tocco-prendo" é una modalità epistemologica fondamentale; ma, per molti adulti, il sistema di azione/reazione torna a essere utile solo nella pratica fisica degli sport e del sesso. Come sapeva bene Mlis cent'anni fa e come ben sanno Lucas e Spielberg, una bella corsa su un otto volante funzionerà sempre in un film: il movimento in sé, senza scopo né fine, é molto seducente, anche se di rado può diventare uno strumento di conoscenza.
La parola "arte" ricorre in tutti i titoli degli interventi presentati in questa conferenza, ripetuta come un mantra. Quindi, prima di concludere, credo che valga la pena precisare cosa intendo io con quel termine.
In primo luogo dobbiamo sottolineare che l'arte:
1.si fonda sempre su una data tecnologia ed é connessa ai suoi sviluppi; 2. sempre interattiva, sia nella sua essenza originaria, sia nel processo che la mantiene viva e la muta secondo la storia
Quando penso all'influenza della tecnologia sull'arte, mi riferisco agli archi rampanti del dodicesimo secolo, all'invenzione dei colori a olio nel XV secolo, allo sviluppo dei tubetti per i colori nel 1800 e alla creazione delle videocamera portatile nel nostro secolo. Quando parlo di interattivit dell'arte, penso a quando ci si sposta nella cappella degli Scrovegni di Giotto, o quando si incontra lo sguardo della ragazza in un dipinto di Vermeer, o, ancora, alla mia retina e al mio cervello che inconsciamente mescolano i colori per creare la figura di una donna della Grande Jatte di Seurat.
Molte persone entrano in contatto con l'arte, o si accorgono di fare dell'arte, quando si iscrivono all'università e scoprono la vecchia divisione in "arti e scienze". L'utilizzo del termine "arte" in questo contesto deriva dal medioevo, quando sia l'artigianato sia certe forme di conoscenza venivano raggruppate sotto lo stesso termine di arte. In quell'epoca il mondo dell'arte si esprimeva nel sistema delle corporazioni, che, dal medioevo fino al rinascimento e oltre, resta il sistema dominante per la creazione e promozione delle opere d'arte. Sono espressioni delle corporazioni gli innumerevoli trittici, le pale d'altare e le sacre conversazioni che rivelano ben poche innovazioni compositive o di contenuto, ma una grande affinazione tecnica e formale. L'enfasi sulla tecnologia si ripresenta ogni volta in cui l'arte incontra una tecnica radicalmente nuova, come nel caso della fotografia nel 1800, o dell'elettronica nella nostra fine secolo.
Oggi, quando sentiamo la parola "arte", pensiamo a qualcosa di ben fatto, prodotto di un'abilità straordinaria e di un misto di stile e grazia, come nel caso dell'arte di Michael Jordon, di Tom Hanks o di Itzak Perlman. Oppure pensiamo a un'attività o a una disciplina che richiede la perfetta conoscenza di una tecnica, come nei casi dell'arte del cucito, del legno o, infine, della realtà virtuale. Entrambi gli esempi pongono l'accento sulla tecnica, la bravura e l'esperienza, implicando una scala di valori basata sulla qualità conquistata grazie alla pratica e all'esercizio.
Ma c'é una terza zona che non racchiusa nella definizioni legate alla capacità tecnica o artigianale. Itzak Perlman é un grande violinista dotato di una straordinaria abilità, ma non scrive musica: non é né Mozart, né Beethoven. Essendo un compositore, Beethoven pretende che i musicisti condividano e interpretino la sua musica per rendercela disponibile. Il musicista deve essere un virtuoso, deve conoscere la tecnica, ma Beethoven non chiederebbe mai a un musicista di scrivere musica. Ecco un'importante distinzione, tra compositore ed esecutore. Essere un esecutore non riduce affatto la bravura e la creatività di Perlman o di qualsiasi altro musicista, né incrina la relazione simbiotica che li lega a un compositore. Il problema é che Perlman non é coinvolto nella vera, assoluta Creazione, quella inarrestabile forza della visione individuale che riesce a introdurre nel mondo qualcosa che non esiste prima, qualcosa che trascende lo strumento o la tecnica, introducendo in un oggetto costruito ad arte quella misteriosa ineffabilità che ci permette di distinguere un Giotto o un Vermeer da centinaia di semplici artigiani dell'epoca. Quella stessa ineffabilità che, dopo secoli, ci parla ancora con lo stesso tono di voce, personale e profondo.
Ho voluto dare questa definizione di ciò che intendo con il termine "arte" perché nei nostri musei, nelle nostre conferenze, le parole "arte" e "artisti" sono applicate alle attività e alle persone più diverse e distanti. A differenza degli Inuit, che hanno una decine di parole per parlare della neve, noi abbiamo un solo termine per descrivere l'arte, e continuiamo a utilizzarla per riferirci a uno spettro gigantesco di condizioni culturali, creando una confusione che compromette l'apprezzamento e la comprensione di tutti gli aspetti dell'Arte.
Per quanto mi riguarda, quando parlo di arte intendo ciò che vi ho appena detto; ed quell'ineffabilità che cerco, dentro o fuori dal recinto delle Belle Arti. é quell'elemento che cerco nelle parole, nelle immagini, nei suoni, nella stessa esperienza e in discipline quali la pittura, la musica, il video e la realtà virtuale. E non mi posso affidare che ai miei occhi, alle orecchie, alle mani o alle papille gustative per riconoscerla; solo il mio essere più profondo, la mia emotività, l'intuito e le emozioni ne percepiscono la forma familiare. L'arte é ciò che conosco intimamente, eppure, come diceva san Agostino: "So benissimo cosa sia il Tempo almeno fino a che qualcuno non mi chieda di spiegarglielo" non so nulla sulla sua vera Natura, o su come controllarla, riprodurla ed evocarla a comando (condizioni che sono necessarie per garantirsi un buon successo commerciale). Credo che ci sia una specie di condizione immutabile che scaturisce dall'interazione creativa tra esseri umani e oggetti materiali; e questa condizione si riproporrà costantemente e inevitabilmente, a prescindere dalla direzione in cui decidiamo di incanalare la nostra curiosità e creatività. Ci sarà sempre, finché l'occhio potrà vedere, finché la mente potrà immaginare, fino a che continuerà l'evoluzione della tecnologia delle immagini. L'arte é qui con noi, adesso, latente e in potenza, in ogni spazio che creiamo, reale o virtuale che sia: noi dobbiamo soltanto lasciarle lo spazio per crescere e svilupparsi, e riconoscerla quando apparirà sotto nuove forme.