esperienza/conoscenza: alienazione o nuova era?

L'informazione così veloce e allargata, così geograficamente globale, sembra non apportare più nessuna esperienza/conoscenza, come se le cose accadessero come non assimilabili, comprensibili (assumibili nel profondo) e quindi con il rischio di rimanere soltanto "storie" commestibili, ma sempre esperite da altri, senza indicazioni per l'uso per poterne cogliere la verità, storie soltanto al livello di veridicità. Lo spazio, inteso qui come sosta riflessiva, é in effetti espropriato dall'avvento di una nuova dimensione fisica: un tempo, l'attuale, storicamente intermediario tra l'ieri ed il domani, che scorre di pari passo alle immagini virtuali che si susseguono, ci inseguono e ci perseguitano senza lasciare posto alla riflessione. Questo nuovo spessore del tempo tende a fare evaporare lo spazio, sia fisico che metafisico. Nella cultura così detta "umanista", il pensiero creativo e formativo ha sempre presupposto un luogo interiore dove fosse possibile la riflessione e quindi l'acquisizione dell'esperienza/conoscenza che, formata dal vissuto individuale (inteso come ricezione, reazione, assimilazione relativa al sèWinking, si consolidava attraverso il personale confronto con quanto sperimentato "ora" e "intorno". Ogni informazione verbale e/o visiva ha dovuto proporsi come classificabile, con una sua specifica qualità, contenere in sé il valore che ne permettesse il collocamento come elemento accrescitivo e conoscitivo nel labirinto individuale dell'esperienza, per non rimanere soltanto un "notizia qualunque". Questo importante confronto con la realtà, tarato dalla personale esperienza/conoscenza (la propria cultura quindi), sembra ora venire sottratto dall'attrazione ipnotica delle immagini che scorrono continuamente, facendo evaporare, con l'accumulo che viene proposto/imposto, l'eventuale spessore, lasciandole quindi solo al livello di informazione. La velocità con cui le queste informazioni appaiono e scompaiono, le colloca quindi come un rumore di fondo a un niente: spogliate dal valore tangibile di "realtà", la loro verifica risulta alienata dalla possibilità di venire confrontata con l'io di ognuno, "condivisa", assimilata e trasformata infine in esperienza/conoscenza. Il risultato è un'omologazione generale di comportamento, uno standard di persone molto simili tra loro per mascheramento, aspettative e reazioni agli stimoli della vita.
Sembra che, senza il confronto tra ciò che accade e le esperienze personali, non possa esistere nessuna conoscenza e che, senza la conoscenza (con valenza sempre individuale) non possa esistere la personalità, il pensiero singolare: alla fine é la "persona" come modello unico che sembra non esistere più. La "persona" ci appare ora l'attore/comparsa di un teatro caotico e ripetitivo al quale sia lasciato solo lo spazio per immagazzinare le notizie degli eventi che, divenendo in tal modo virtuali, non possano venire elaborati, metabolizzati, adattati alle necessità di ognuno. E' come se venisse a mancare, quindi, l'individuo. Una vita senza luoghi per le scelte, una realtà in cui ogni notizia comunicata per immagini può solo venire ingoiata frettolosamente ed espulsa altrettanto rapidamente per fare continuamente posto ad altre immagini che non danno strumenti per elaborarle, sembra togliere quello spessore di riflessività che, "rispecchiando il se", ha sempre permesso all'informazione di divenire esperienza/conoscenza e di formare così la personalità/persona.
Alienazione pura o un nuovo genere umano?
La necessità di esorcizzare l'ansia di questo mutamento preannunciato, genetico/storico, la paura di dissolverci come individui in un tutto indistinto, apre alla tentazione di credere di essere invece sulla soglia di una radicale rivoluzione culturale, dove l'orizzontalità/superficie che sta soppiantando la verticalità/profondo sarebbe soltanto un punto di vista strabico rispetto a quanto perseguito nell'ultimo millennio ma che in realtà, proprio per l'estraneamento dal sè, prometterebbe una visione meno egocentrata che darebbe alla Conoscenza una valenza maggiormente legata alla quantità che alla qualità e che forse proprio a causa della somma degli accadimenti esponenzialmente crescente, instaurerebbe la necessità di una navigazione a vista sulla cresta dell'immenso magma di fatti con i quali i mass media ci sommergono, uno scivolare sopra le cose, forse anche una pulsione a rinunciare alla individuale maniacalità della specializzazione. La nuova forma del sapere non si avvarrebbe più, in tal modo, dell'esperienza personale, che scomparirebbe del tutto, ma soltanto di una esperienza mediatica e "altrui", virtuale e alienata dalle emozioni, un accomunamento imposto da una ipotetica nuova pratica di vita che cancellerebbe ogni dimensione colloquiale ma che, per compensazione, permetterebbe la fruizione di un sapere condiviso (parademocratico quindi) al quale accedere tutti, in qualsiasi momento, una sorta di omogenizzazione della conoscenza e della coscienza che, non usufruendo più delle emozioni private, segnerebbe sicuramente anche la fine della poesia, intesa come metafora delle sensibilità individuali. Sarebbe una società assolutamente sintetica, nella quale l'informazione leggera e globale alienerebbe gli esseri umani dalle responsabilità di testimoniare la propria individualità, quindi dalle scelte: non più una direzione ma mille e una, mutevoli, volatili, imposte, intercambiabili. Saremmo in un mondo dilatato a tal punto da divenire diradato, liso nel suo stesso ordito, quindi trasparente e permeabile al tutto, una presunta nuova civiltà dove il meno sarebbe necessariamente il più.
Ma questo non è e non può essere realmente ciò che ci attende, né può essere o divenire la futura storia dell'umanità.
Cerchiamo di non fare quindi una confusione tra il sapere ancora possibile e il sapere veicolato dai media, tra l'esperienza possibile e la modalità di fruizione della cultura mediatica di massa, lasciamo una porta aperta al seme dell' individualità: forse esiste ancora una globalizzazione delle idee, ma anche una globalizzazione "buona", veicolata dagli scambi umani reali, dalla solidarietà, dalla reale curiosità, anche se questo può apparire un fenomeno assolutamente minore e trascurabile rispetto alla globalizzazione negativa e omogeneizzante che tracima tutto e che, delle culture particolari, dei saperi particolari, fa sopravvivere solo ciò che è esportabile e dunque solo gli aspetti banali, e anche se é proprio quest'ultima ad essere perfettamente compatibile, anzi ne discende direttamente, con un sistema di tipo oligarchico in cui piccole minoranze (detentrici di enormi strumenti di potere economico, politico, culturale) di fatto decidono per gli altri.
E' quindi urgente mantenere ben distinte: da una parte l'ansia di mantenere a tutti i costi una identità (ansia legittima in un mondo che annulla la persona), anche contentandosi di un eventuale modello riduttivo che si confonda con i flussi mediatici, partecipando passivamente alla dimensione globale che abbiamo chiamato "nuova cultura", e dall'altra invece credere fortemente nell'importanza di comprendere quali sono le nostre radici culturali, quindi trasmetterle costantemente, comunicarle, mantenerle tenacemente vive e vivaci nei pochi spazi individuali che ci sono ancora concessi: l'esempio, il confronto diretto con l'immediato altro, la profonda e inalienabile libertà del discernimento e quindi delle scelte, a cominciare da quelle piccole e quotidiane, ed essere assolutamente consapevoli che questa sia la sola vera strada per poter mantenere una ragione lucida e per non aver paura, ora si, di perdere se stessi nel confronto con l'altro e con l'altrove.