testo dell'intervista con Cosetta Saba per il libro su art/tapes/22,"Arte in videotape" Silvana editoriale 2007. promosso dal Dams di Gorizia e dall'Asac di Venezia

art/tapes/22. Conversazione con Maria Gloria Bicocchi
a cura di Cosetta G. Saba e Mirco Infanti
Premessa personale all’intervista
Mi trovo ora ad essere appassionata spettatrice delle cose accadute: come avere dato alla luce un figlio e poi accorgersi di avere procreato un genio! Voglio sottolineare che io non sono una critica né tanto meno una storica della videoarte, sono solo (ed è molto) una persona che, nata nel mondo dell’arte (essendo figlia di un artista, nella nostra casa di Fiesole, ora museo Primo Conti, venivano a passare dei giorni con noi Giorgio De Chirico con la moglie, Ungaretti, Montale, Strawinski, eccetera, e ricordo un Natale da Pablo Picasso a Vances) la mia sensibilità è sempre stata spontaneamente rivolta all’arte e sempre al domani, è quindi accaduto che facessi questo importante percorso con gli artisti che lo hanno fatto con me, attraverso art/tapes/22, una sorta di esplorazione nel linguaggio della loro arte in questo caso espressa con il mezzo video. Questo è tutto. Sono stata in senso profondo amica loro e mai committente o critica, abbiamo come “suonato a quattro mani”, la lettura di questo percorso (come accade sempre) è venuta a posteriori, molto molto dopo: al momento eravamo tutti in realtà affascinati proprio dalla non esistenza di canoni o letture in chiavi estetico-filosofiche, apprezzavamo tutti la grande libertà che si stava rivelando in ogni momento. Quello che voglio premettere forse aiuterà a comprendere il senso di tante mie risposte alle vostre domande, e anche il senso di tante "non risposte".
Negli anni di art/tapes/22 l'ideologia poggiava, forse utopisticamente, su grandi azzeramenti per cominciare e non solo ricominciare: critici come Carla Lonzi allora, nel suo libro "Autoritratto" e Adachiara Zevi oggi, nel suo "Peripezie nel dopoguerra nell'arte italiana", hanno poggiato il proprio "mestiere" su una pratica basata sul solo rispetto dell'artista, affidando la lettura dei loro lavori e del loro essere artisti solo al proprio intuito e alla convinzione di “essere partecipi di qualcosa che é cultura", anziché di riprodurla, sempre ponendo e ponendosi delle semplici, semplicissime domande, e lasciando che le risposte fossero già tutte nel lavoro e nelle persone, lasciando gli artisti quindi sempre centrali e assoluti protagonisti.
Dico questo perché ora invece la cultura ha come bisogno di autogarantirsi nella storicizzazione, nelle citazioni e nelle analogie: sono letture molto interessanti, ma assolutamente "a posteriori", il periodo in cui l'opera d'arte nasce è al di fuori da qualsiasi progetto "colto" perché è l’oprra d’arte stessa ad essere “cultura”, e quindi non ha bisogno di riferimenti per esistere. Ad esempio, in Kounellis il lavoro é sempre RIVOLUZIONARIO e in Kosuth il lavoro E’ LA CITAZIONE, la tautologia, queste importanti basi SONO L'OPERA STESSA e non dei riferimenti. La tensione e l'intenzione dell'opera sono sempre autonome rispetto alla probabile lettura critica a posteriori. La conoscenza, indispensabile alla comprensione, deve in qualche modo proporre una scorciatoia, una assolutezza della lettura anziché arricchirla con discipline collaterali come la filosofia, l'estetica, la storia ed altro, questo lavoro di ri-costruzione che la storia fa delle opere prodotte in passati prossimi o remoti, é una necessità tutta legata agli studiosi, agli storici e ai critici, non una necessità dell'artista né tanto meno dell'opera in sé che non ne ha bisogno per esistere.
D'altronde l'artista vero non si riferisce mai a ciò che viene detto del suo lavoro, spesso lo ignora, altre volte non lo condivide: l'analisi delle opere non é un problema suo. Questo era assolutamente il clima in cui art/tapes/22 ha operato, negli anni '72/78, e questa ideologia mi é rimasta indelebile addosso e influenza comunque sempre ogni mio intervento sul passato ma anche sul presente! Lascio quindi ad altri la lettura critica e storica di quegli anni e di quei lavori, di quell’avventura di via Ricasoli 22 a Firenze nella quale mi riconosco troppo per saperla analizzare se non attraverso una partecipazione appassionata…





Intervista

[c.g.s] Vorrei cominciare questa conversazione dal tema del doppio livello di “presenza” che tu senti di avere verso art/tapes/22. La “presenza” di allora: il fare, il pensare art/tapes/22 come se il fatto di intraprendere un percorso esperienziale coincidesse con l’azione di tracciarlo, di "inventarlo", ma senza alcuna predeterminazione o mira; «pensare e fare "art/tapes/22" - hai detto - è stato come "respirare"… ». La “presenza” attuale che implica invece un percorso di storicizzazione e che ti fa guardare a quell’esperienza da una qualche distanza, che ti fa sentire "spettatrice" di art/tapes/22 centro di produzione, distribuzione di videotape d’artista e di disseminazione della "video arte". “Video arte” che allora non un "nome" né definizione (penso alla lunga riflessione che nel 1974 René Berger dedicò a questo tema nel saggio “L’art vidéo. Defis et paradoxes&rdquoWinking
1 e che è ancora oggi investita di problematicità "produttive".

[m.g.b] Sì, ti confermo che il lavoro fatto con gli artisti per produrre le loro opere in video è stato un “lavoro” di attraversamento della mia stessa vita, spesso anche della loro vita, mai un progetto rigoroso, è stata un'operazione assolutamente orizzontale, un percorso creativo come è in realtà quello dell’arte in genere, la cultura cammina precedendo se stessa, va avanti senza premeditazione né disegni di politica culturale.
In quanto alla definizione, ancora oggi "video arte" è tutto e niente. Esistono dei lavori di artisti che hanno semplicemente "usato" il mezzo video ed esistono lavori di artisti (Bill Viola) i cui meravigliosi "tableaux vivants" si basano su una ricerca straordinaria e sofisticata del mezzo e quindi il risultato, al contrario di altre esperienze, è un'opera in verticale, in profondità. Non esiste un “meglio” o un “peggio”, esistono artisti diversi tra loro, liberi di realizzare la propria arte con qualsiasi mezzo e con qualsiasi approccio a ogni mezzo, ed esistono poi persone che vedendo le opere di artisti diversi si riconoscono maggiormente in una piuttosto che in un’altra, soggettivamente e legittimamente.


[c.g.s] Sì, non è certo una questione risolvibile sul piano del giudizio qualitativo o del giudizio estetico. Semmai è un tema che pertiene alla definizione dell’arte, alla vexata quaestio del che cosa sia l’arte o quale sia la sua funzione, anche rispetto ai media e ai linguaggi.
Nell’intervista di Valentina Valentini e Alessandra Cigala - riferendoti in particolare ai No title di Jannis Kounellis e a Unisono di Paolini - sostenevi: «Quando ho iniziato a produrre video di artisti non mi sono rivolta essenzialmente a chi faceva del linguaggio video il suo campo specifico e preferenziale di espressione. Nel campo delle arti visive (e allora eravamo in piena fioritura della Performance art) non ho mai distinto il video-artista dall’artista tout-court che sperimenta diversi linguaggi e tecniche. Non ho mai operato questa distinzione. Non credo nell’artista video, credo nell’artista che fa anche un videotape, e questo fa parte del suo lavoro globale, è uno dei suoi lavori». 2

[m.g.b] Con qualche eccezione sono ancora convinta che il valore stia nel lavoro dell'artista, nell'arte, piuttosto che il tipo di supporto con cui un artista lo ha realizzato, e sono ancora convinta che il video lasci tutta la libertà possibile a chi lo usi per produrre una sua opera. Tanta è la libertà di questo tramite che ad esempio Bill Viola che lo usa come una lente tridimensionale, quasi un ologramma ruotante, una pittura precisissima, è esattamente un artista che lavora con il video, come gli altri, e non un video artista e basta, come si usa definirlo. Ci sono tanti modi per "dipingere", non scordiamoci che Jannis Kounellis si definisce "pittore" e con ragione anche se non tocca un pennello! L'arte è il risultato emozionale e visivo dell'opera.

Perché ho chiamato "antivideotape" quello di Jannis: perché, essendo questo lavoro soltanto un’opera che esprime se stessa, al di là delle possibilità del mezzo, può definirsi “antivideotape”, ma "Senza titolo" è assolutamente quello che doveva essere: un'opera di Kounellis realizzata con il solo mezzo con cui questo specifico lavoro poteva essere realizzato per “rimanere”, al contrario di una performance, quindi il video. È un bellissimo videotape, e un vero videotape! Il risultato sta nella libertà di ogni artista di esprimersi appunto senza il vincolo di sentire il mezzo video come un linguaggio che abbia le sue regole.


[c.g.s] La definizione di “anti-videotape” è tua; è contenuta nella già citata intervista di Valentina Valentini e Alessandra Cigala. Parlavi dell’opera di Kounellis riferendola - secondo me in modo piuttosto interessante - a «una concezione retoricamente “anti-videotape” […]: non ci sono né colore né azione né suono. È una lunga sequenza nella quale appare Jannis, con il volto coperto dalla maschera di Apollo e una lampada a olio in mano e immobile per mezz’ora, per tutta la durata del nastro. Si capisce che una still life perché la sua mano un po’ si muove. Ma non è una performance, è un suo lavoro “vivo” che rimane nella storia attraverso il mezzo video». 8

(mg) Sì, confermo le mie parole e aggiungo anche che
so per certezza che Kounellis spesso non ricorda di aver fatto "un videotape" ma sicuramente ricorda una sua opera realizzata a Firenze con me, in cui con la maschera di Apollo tiene una lanterna nella mano sinistra..







[c.g.s] Penso assolutamente che art/tapes/22 non sia “archeologia” della video arte, ma arte video in nuce. Così oltre a Nam June Paik e a Bruce Neuman è impossibile non pensare a Bill Viola, operatore e direttore del settore tecnico di art/tapes/22 dal 1974 al 1976. Nel corso delle attività di restauro, vedendo e rivedendo in questi mesi i suoi videotape, ci siamo chiesti come mai abbia potuto - con la piattaforma tecnologica a disposizione (quella dell’epoca intendo) - sperimentare il linguaggio video allora in via di definizione e praticare il “montaggio” [penso in particolare a Gravitational pull, girato nel 1974 negli spazi art/tapes/22] in un modo così straordinario, eccedendo la tecnica e la base tecnologica stessa del medium.


[m.g.b] Billy quando è venuto da me era in assoluto “l'allievo” migliore che ci fosse nelle università americane (aveva “studiato video” con il giovanissimo David A. Ross) in questo settore, di qui la capacità (magia?) di realizzare montaggi straordinari con equipaggiamenti minimi..spesso montavamo a mano usando un gessetto sul nastro che girava, tagliandolo/attaccandolo poi nel punto esatto! Billi ha lavorato con me in art/tapes/22 con grande passione, disciplina, capacità e creatività. Era chiarissimo fin dai primi video che ha realizzato a Firenze, che il suo non era soltanto un “mestiere” e che il video per lui non era un mezzo piuttosto di un altro, come per moltissimi altri artisti. Il video ERA LUI! Ne aveva bisogno per esprimere la bellezza che aveva (ed ha) in sé.Il perfezionismo che ha perseguito e infine raggiunto è assolutamente frutto della sua indole meditativa ed altamente spirituale: solo nell'astrazione dal sé possono raggiungere delle rarefazioni così perfette!
Un momento importante per lui, ad esempio, è stato l’incontro avvenuto un anno fa con il Dalai Lama, incontro del quale mi ha inviato una fotografia commovente: prima di lavorare ha sempre preso del tempo per meditare, se si esamina la maggior parte dei suoi lavori, i soggetti sono sempre al di sopra di una semplice temporalità, dalla nascita alla morte e oltre, l’”oltre” è sempre presente nella sua ricerca artistica, che poi riflette la sua ricerca umana.
Sono tuttora costantemente in contatto con lui, siamo legati da un qualcosa di molto speciale che va al di là dell'amicizia o dell'aver lavorato e vissuto tre anni insieme, qualcosa di molto profondo.

[c.g.s] Come ripensi il contesto di definizione di art/tapes/22 e degli altri centri di videoarte in Europa: Fernsehgalerie di Gerry Schum, lo Studio 970/ 2 di Luciano Giaccari, il Centro Video Arte di Ferrara, fondato da Lola Bonora, la galleria Il Cavallino di Venezia?

[m.g.b] Per Gerry Schum ho sempre avuto una grandissima ammirazione e trovo i lavori Land art e Identifications tra i più belli mai prodotti in questo campo fino a tutt'oggi. Con Paolo Cardazzo, della galleria del Cavallino di Venezia, ho collaborato spesso, soprattutto per i contatti con artisti dell'est europeo. È stata una delle rarissime persone che ha amato questo mezzo, e attraverso la sua partecipazione curiosa e attenta si è costruito (come anche l’industriale Luigi Rossi) una collezione invidiabile di videotape, e tuttora continua ad occuparsi con intelligenza di questa forma di arte. È un carissimo amico, oltre che l'editore del mio libro.
3 Luciano Giaccari ha fatto un importantissimo lavoro di documentazione, il suo archivio credo contenga assolutamente tutto il lavoro degli artisti comportamentisti che sono passati in quegli anni per l'Italia. Anche Lola Bonora ha prodotto e forse produce ancora, video importanti con il museo civico di Ferrara.

[c.g.s] Quali sono stati i criteri delle scelte produttive e di quelle scelte distributive?

[m.g.b] Nessun criterio preciso, alle scelte della produzione si aggiungevano via via le occasioni, le proposte per la distribuzione di opere prodotte altrove: questo avveniva soprattutto per amicizia e per stima reciproca con gli artisti e con galleristi come Leo Catelli e Ileana Sonnabend.
art/tapes/22 non ha mai avuto nessun aspetto "professionale", nessun progetto a monte, tutto si è svolto liberamente, come il respiro: via via gli artisti venivano invitati direttamente da noi, o li incontravamo in qualche parte del mondo, o ancora venivano per realizzare una mostra nelle gallerie Schema e Area e accadeva che poi lavorassero con art/tapes/22; è stato un discorso di vita, non solo di lavoro, ed è stata proprio questa “libertà” assoluta a incantare tanti artisti, a far loro prolungare il discorso di lavoro con quello, tutt’ora in molti casi esistente, di grande amicizia. Sembra strano anche a me, ora, ma magicamente è stato così! Allan Kaprow sottolineava la grande differenza tra gli studi americani dove il tecnico in camice bianco inizia a lavorare alle 10 e finisce alle 5,30, rispetto a noi che eravamo partecipi emozionalmente e fisicamente sempre, disponibili giorno e notte, una condivisione straordinaria di una importante porzione di vita.

[c.g.s] art/tapes/22 è un luogo di attraversamenti, di presenze e (mutuando la definizione da Gérad Genette) di una “pluralità operale”:
4 l’ “installazione” immobile di Daniel Buren, 5 l’ “anti-videotape” di Jannis Kounellis, l’ “Unisono” di Giulio Paolini ecc. Detto altrimenti, il videotape era parte dell’operazione espressiva che gli artisti stavano compiendo in quel periodo.

[m.g.b] Di questi amici, grandi artisti, parlo a lungo nel mio libro
: 6 le presenze loro erano costanti, tutte le estati a Santa Teresa, molti Natali a Sant'Ippolito (due luoghi a me molto cari) e sempre con reciproca e grande amicizia: tutt'ora, come dicevo prima, è così con molti di loro.


[c.g.s] Ancora una domanda sul contenuto dell’ “installazione immobile” di Buren che metteva in circuito chiuso la sua “pittura impersonale” sulla quale aveva puntato delle telecamere collegate a dei televisori di differenti grandezze non attivando la registrazione, bensì solo la trasmissione «assoluta e simultanea». 9 I televisori dunque fungevano, al contempo, da cornice e da quadro? È stata secondo te un’operazione sui limiti dell’opera pittorica o una critica del medium video?

[m.g.b] L'installazione di Daniel Buren è stata il solo "evento" di questo tipo affrontato da noi: consisteva nel rifare in onore di Gerry Schum, un lavoro già progettato per lui anni prima. 7 Ho visto tante volte lavorare Daniel per realizzare le sue opere (tre di queste nelle mie case, l’ultino per la terrazza della casa dove vivo ora, a Procida), ma quella volta il lavoro "manuale" era collettivo, tutti insieme, ed è stato molto emozionante. E’ stata anche una delle poche video installazioni dell’artista, certamente con riferimento all’incorniciatura di quadri e ai quadri stessi che altro non erano che le porzioni ritagliate da Daniel nella parete opposta ricoparta con le sue strisce!


[c.g.s] Che cosa pensi della decisione dell’ASAC di intraprendere un’attività di restauro preservativo digitale delle video opere di art/tapes/22?


[m.g.b] Penso che abbiano affrontato, forse con ritardo, un percorso doveroso e importantissimo, non tanto per "salvare" il supporto originale (che comunque in un archivio rimane come documento estremamente importante), ma per rispettarne il contenuto, l'opera degli artisti cioè, e poterlo rendere fruibile nel tempo, come è il destino delle opere d'arte, tutte.


[c.g.s] Il nastro magnetico porta con sé la sua stessa deperibilità. Ma forse, anzi quasi certamente, per quanto attiene al corpus art/tapes/22 il deterioramento del supporto (della materia) è un limite delle tecnologie video dei primi anni Settanta e non una componente prevista, programmatica dell’opera stessa. Nondimeno quella dell’intervento di restauro preservativo digitale è una scelta che dà da pensare e pone in campo metodi, pratiche, protocolli ai quali sono sottesi principi teorici (filologici, semiotici ed estetici) ed etici. È una scelta che pone molti problemi e che riguarda infatti tutta l’arte contemporanea e il cinema.
Tu sostieni che “il supporto non è l’opera” ed è un assunto che ha differenti incidenze riguardo, ad esempio, alla questione delle “copie originali”, dell’opera multipla e, soprattutto, rispetto ai modi artistici che programmaticamente non hanno manifestazione, nel senso che non coincidono con un “esito”, un “resto”, un “oggetto” o il cui contenuto non è immediatamente riconducibile alla superficie espressiva che pure gli si correla (come accade segnatamente per l’arte concettuale, ma non solo).
Non ritieni però che le pratiche del restauro preservativo pongano in evidenza il fatto che pellicola e nastro magnetico non siano soltanto supporti “indifferenti” dell’opera, ma in qualche modo anche la “materia” di cui essa si sostanzia, che è in grado di sviluppare importanti aspetti formali, aspetti “linguistici” da un grado zero, quello della “registrazione” ad un grado elevatissimo di elaborazione (come accade nelle opere di Bill Viola o in quelle diversissime di Steina e Woody Vasulka)?


[m.g.b Certamente, in molti casi, come in Nam Jun Paik, nei Vasulka e qualche volta in Bill Viola, il mezzo, lo strumento e la sua sofisticazione sono l’unico modo per realizzare “proprio quell’opera”, ma in Europa, negli anni di art/tapes/22, il supporto non ha dato alcun aiuto agli artisti. Per quanto riguarda le opere “originali” rispetto alle “copie”, al di là della legittimità della valorizzazione del "feticcio", della scelta di una persona di acquistare una "prima edizione" di un libro che ama, anche se fatiscente, illeggibile e quindi ridotto a mero oggetto di venerazione, invece di ritenere l'opera esistere nelle parole... «Guido io vorrei che tu Lapo ed io .... » - io prendo come sai una certa distanza da questo punto di vista, anche perché comunque ritengo che "il feticcio" consista soprattutto in una operazione destinata a mitizzare un oggetto come tale, esprima quindi un atteggiamento un po' maniacale come è sempre quello del collezionista, “linguisticamente” sbagliato per l'espressione dell'arte relativa alla produzione con il videotape. Ogni opera prodotta in video, in film, foto o altro realizzato con un "mezzo tecnologico", per rimanere nella relativa eternità che vogliamo sempre garantire alle opere che amiamo, necessiterà sempre di aggiornamenti, riversamenti, via via che la tecnologia avanzerà, cambierà, si semplificherà. Questo non toglie niente all'opera in sé ma solo al suo involucro. Attenzione a non fare una lettura metonimica dell'opera video, una parte per il tutto, scambiando il supporto per l'opera in sé. La video arte è frattalica, orizzontale, destinata a spargersi ovunque: se si ipotizza come mezzo ottimale di divulgazione il web, ad esempio, ecco che finalmente l'involucro, il possesso, l'originale spariscono, e con loro finiscono i malintesi che rischiano di ricondurre il giudizio sulla video arte esattamente ai parametri di altre opere d'arte, l'oggettificazione, i multipli, l'opera unica, quindi il collezionismo eccetera.

[c.g.s] Quali sono i motivi che hanno fatto sì che in art/tapes/22, ad eccezione degli interventi di Giuseppe Chiari, Bill Viola e dei Vasulka, l’incidenza degli aspetti tecnologici e tecnici sul linguaggio video non si attestasse che a un “grado zero”, quello della registrazione?

[m.g.b] Mi ripeto forse, ma lo devo fare per rispondere a questa domanda: negli anni Settanta le risorse tecnologiche erano primitive e inadeguate rispetto ad ora, mi piace però ripetere che secondo me, comunque, per l'espressione artistica che in quel periodo la video arte rappresentava, il supporto non significasse altro che un mezzo per realizzare un’opera e non il linguaggio dell’opera stessa (almeno per quanto riguarda l'Europa, per gli Stati Uniti il discorso è opposto fin da allora).

[c.g.s] Perché il videotape in Italia, in quegli anni, è stato “mezzo” e non “linguaggio”?

[m.g.b.] Questa teoria del mezzo che non è linguaggio è soprattutto una teoria mia e non genericamente europea: in Italia e in Europa, se si pensa ai lavori realizzati da Gerry Schum, il fatto che la tecnologia non fosse sofisticata e che non ci fossero “scuole” per questa nuova disciplina (in USA ad esempio la Long Beach University aveva come docente David A. Ross e sfornava giovani artisti come Bill Viola!) ha sicuramente contribuito a lasciare l'artista più libero di esprimersi per fare, sia pure con questo mezzo “nuovo” soltanto un “suo lavoro”, come gli altri: qualcuno su carta, altri su tela, altri con il video, altri con la performance.

[m.i] Realizzare un’opera d’arte su tela, piuttosto che su carta o video costituisce un’enorme differenza. Esprimere un concetto di fronte ad una videocamera è diverso rispetto all’esprimerlo su tela o su carta (o qualsiasi altro supporto), presuppone un linguaggio diverso, che va necessariamente costruito (nel caso in cui esso non esista), o adattato (nel caso in cui si differenzi da qualsiasi altro linguaggio preesistente) se si vuole che il messaggio contenuto nell’opera giunga a destinazione. Forse, come tu dici, il video non è un linguaggio, ma converrai che non è neppure un semplice mezzo, ma è strumento di realizzazione e di creazione e trasmissione.
Scusa se insisto, ma gli anni Sessanta e Settanta hanno costituito sul piano culturale un particolare periodo di “rilancio” nel modo di fare, vedere e concepire l’arte (che tu stessa, nel caso di art/tapes/ 22, hai più volte definito «il Nuovo Rinascimento fiorentino»Winking. Il cosiddetto
cinema sperimentale (o, come andava definendosi in USA e in Europa, underground) ha costituito una sorta di rivoluzione nel modo di concepire e soprattutto di esprimere l’arte, mediante un “intervento sul linguaggio”. La riflessione (sul linguaggio) che n’è scaturita veniva a costituire il punto focale di una più ampia riflessione sull’arte, in un continuo scambio alla pari d’idee, risorse e concetti. Si realizzarono così incursioni in campo linguistico-letterario a testimonianza della tendenza dell’ambiente artistico di cogliere dal mondo della poesia e della scrittura, e dalla struttura che le regola, importanti segnali di una svolta radicale, che si realizza attraverso la ricerca e la riflessione sul linguaggio stesso (e che si sarebbe poi propagata in tutti gli altri ambiti del sapere e dell’arte). Roland Barthes asseriva che “essendo tutto il linguaggio la deriva da un campo specifico ad un altro” questo implicava “una verifica costante e ogni volta riavviata della medesima questione: non vi è neutralità né oggettività nel linguaggio, e le sue forme e modi di strutturarsi e articolarsi vanno costantemente verificati e ripensati alla luce delle trasformazioni del contesto”. Tali “verifiche” e sperimentazioni sono avvenute sia sul piano concettuale (nell’idea dell’opera stessa) sia sul piano tecnico (montaggio, ripresa, supporti ecc.). Ora, il cinema sperimentale ha fondato le sue basi su una sorta di “protesta” verso gli stilemi istituzionalizzati della cultura dominante, nella mai risolta questione della definizione di arte e della definibilità di avanguardia e sperimentalismo, della definizione di non-esteticità, o meglio l’anti-esteticità che poneva, la questione della possibilità di poter usare qualsiasi cosa per fare arte. Questa riflessione implica che il “mezzo” sia non solo un semplice supporto, ma la base stessa su cui poggia l’opera e che costringe continuamente a “rileggere” e “re-interpretare” i concetti di arte e del linguaggio utilizzati. Si potrebbe dire che il mezzo modifichi il linguaggio, o comunque richieda un nuovo livello enunciativo ed interpretativo. Questo, a tuo avviso, non implica che il mezzo (il video nel nostro caso), costruisca e/o costituisca il linguaggio su cui si fonda l’opera? Si potrebbe, a tuo parere, affermare che il video non è linguaggio (ma fino a che punto o in quale misura non lo è?), ma che lo costruisce?


[m.g.b] Nello stesso modo in cui la tela o la creta non sono un linguaggio, cioè sono i mezzi con cui ogni artista si esprime in modo diverso (Rodin, Brancusi, Ricasso, Warhol&hellipWinking e sempre e solo rimanendo unico e se stesso! E’ certo che al di là di questo concetto ogni “mezzo” ha una sua specificità tattile, nel nostro caso direi virtuale, ma l’opera d’arte non si definisce in questo particolare, è al di là di ogni definizione che, oltre ad identificarla (scultura, pittura, video) spesso la imprigiona.


[c.g.s] Non si dimentichi, tuttavia, che la registrazione, che è il grado zero del linguaggio video, ha prodotto un’ampia intersezione tra la video arte e la Performance art; ha svolto una funzione fondamentale per lo studium del “corpo proprio”, del gesto, della performance (penso a Bruce Nauman, al riflessione sul “feed-back con se stessi” di Vito Acconci, ma anche agli “art/tapes/22” di Bill Viola, al “primo” Bill Viola).
Il corpo in immagine dell’artista (i vari livelli della performance “di qua” e “al di là” del dispositivo di ripresa) assume una valenza differente dalla corporeità in quanto “figura” di tanto cinema sperimentale?

[m.g.b] Anche qui mi sento di ripetere un po’ quello che ho detto prima, secondo me la performance è stata una forma d'arte che si realizzava usando soprattutto il proprio corpo, ma che fosse in una galleria o attraverso un video, “al di qua” o “al di là” della telecamera, il senso del lavoro rimaneva intatto, solo la memoria del lavoro viene garantita dal mezzo video, piuttosto che dalla staticità delle fotografie che lo documentano. Qualche volta il mezzo tecnico ha sicuramente dato modo di ottenere tagli e risultati che dal vivo sarebbe stato impossibile controllare, ma questo è un aspetto “esteriore” all’opera stessa. Ma il video non è nemmeno solo performance, può essere davvero tutto ed altro.

[m.i] Un caso esemplare di relazione tra la forma videotape e la Performance art è dato da Florence Tape: clothing, walking, lifting, learing (1974) di Douglas Davis, opera “trasmessa” da Kassel/“Documenta” il 24 giugno 1974. Il videotape di Davis era un “materiale” della performance o la performance stessa?

[m.g.b] Il video ERA la performance stessa: l'artista aveva usato il mezzo video perché solo in questo modo ha potuto raggiungere il “livello” che si era prefisso. Il video Florence tape mostrato a Documenta non era una documentazione, né materiale per una performance live, ma LA performance stessa.

[c.g.s] Il videotape proprio nella sua dimensione tecnologica ha determinato una nuova forma di “autorialità” (una “pluri-autorialità&rdquoWinking che ha messo in campo una relazione sottile tra gli artisti e i tecnici affatto diversa da quella “cinematografica” e forse differente rispetto agli ambiti sia traditi quali gli atelier sia inediti quali la Factory warholiana.

[m.i] Nei videotape realizzati l’apporto di tecnici quali Alberto Pirelli, Carmine Fornari, Raffaele Corazziari, Bill Viola, Andrea Giorgi e altri è sicuramente risultato indispensabile. Come si sono intrecciate in termini d’autorialità i rapporti tra l’artista e il tecnico. Quanto di un’opera appartiene all’uno e quanto all’altro? Si può parlare dunque di “pluri-autorialità”?

[m.g.b]
Alberto Pirelli, che è stato con Carmine Fornari (Nuccio) fin dai primi inizi il tecnico, soprattutto audio, di art/tapes/22: è stato con loro due e naturalmente con Giancarlo che ho iniziato la grande avventura.
La collaborazione che abbiamo vissuto noi di art/tapes/22 è stata del tutto spontanea, al di là di ogni canone “professionale”, artisti e tecnici lavoravano davvero INSIEME, senza settorialità: questo non toglie che l’artista sapeva bene quello che voleva, ma spesso non sapeva come ottenerlo, e di qui la complementarietà assoluta con i tecnici.
Quando Vito ha fatto i cinque lavori con art/tapes/22 aveva costantemente il supporto, oltre che di Alberto Pirelli, di Lello Corazziari, che per un mese ha vissuto in simbiosi con lui: è stato come un prolungamento del suo occhio, del suo braccio. Quasi sempre invece Acconci si pone davanti a una telecamera fissa e realizza così i suoi videotape.


[c.g.s] Risulta interessante notare come nelle opere video di art/tapes/22 si tracci una complessa relazione concettuale tra “artista” e “autore”, anzi si può precisare una sorta di endiadi problematica “artista-autore”. Gino De Dominicis, ad esempio, che sembra sperimentare una poetica quasi artaudiana dell’opera (penso ai saggi di Jacques Derrida su Antonin Artaud e l’opera in quanto “scoria”, traccia persecutoria).
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Videotape è un’opera che parte da un’interrogazione portata sul fatto che la performer chiede di vedere un videotape di De Dominicis e che il videotape che virtualmente le viene mostrato consiste però de facto nel Videotape di De Dominicis che si viene realizzando “a vista” sotto gli occhi dello spettatore, e che solo lo spettatore vede, continuamente interpellato dalla perfomer [cfr.]. Gino De Dominicis artista, nel fare Videotape, “mette in testo”, in chiave metalinguistica - [m.i] in una sorta di gioco di riflessi tra specchi - e criticamente De Dominicis autore («De Dominicis’ tape»Winking. Egli insiste propriamente sul doppio: l’artista e l’autore: l’artifex (che nell’etimo nomina il fare; comp. di ars, artis e -fex, tema di nome d’agente di fac
re), ma anche, nello stesso tempo, l’autore (nozione di formazione più recente, identitaria e stilistica, “firma&rdquoWinking.

[m.g.b] Non capisco bene la domanda, anzitutto il video di Gino si chiama “videotape” e non “De Dominicis’ tape: su questo nastro è nata una strana confusione, le parole pronunciate di fronte ad uno schermo che non mostra altro che drops out, sono pronunciate nella matrice prodotta da art/tapes/22 solo e assolutamente in italiano (e non in inglese come appare dall’analisi fatta da voi), infatti a voce femminile chiede: - ma è questo il video tape di e Dominicis?- E, fuori campo, la stressa voce dell’artista risponde seccamente un –sì—A questo punto la donna di spalle aggiunge: - ma, io non vedo niente,- (e forse qualcos’altro, non vedo questo tape da quando ho donato le matrici all’ASAC, nel 1978, e da allora non ho mai avuto da loro una sola copia dei lavori, nonostante Wladimiro Dorigo mi avesse garantito, come era naturale, di farmeli avere tutti! Ho solo alcune copie che avevo nello studio al momento della donazione, ma questo e molti altri no), quindi si alza con rumore di sedia smossa, se ne va e dopo poco il monitor pieno di linee scomposte si spenge. Gino era un artista che aveva una grande, intelligente ironia e nel suo uso con il video (vedi anche i lavori fatti per Gerry Schum) 11 questa ironia un po’ magica viene fuori. Ma ogni artista è assolutamente un artista-autore rispetto al suo lavoro, qualunque sia il mezzo che usa per realizzarlo. Credo che poi la lettura di ogni opera, da parte di studiosi e storici, possa estrapolarvi riferimenti e citazioni che in realtà nella spontaneità dell’opera (in questo caso assolutamente ironica) l’artista non aveva assolutamente messo, almeno non coscientemente. Qui si tratta di un paradosso più che di un rispecchiamento, e anche della dichiarazione che “video” è tutto ciò che si muove nello schermo televisivo, nel monitor, e che non deve necessariamente essere “leggibile” dai fruitori.

[m.i]
Richiamiamo per un attimo gli specchi: il monitor diventa una sorta di specchio in cui l’artista riflette se stesso, il mezzo e l’opera. Ciò esprime una auto-riflessività del medium, una sorta di narcisismo o semplicemente uno specchio attraverso il quale far emergere un nuovo modo di vedere, percepire, comprendere e analizzare il mondo?


[m.g.b] Sì, nella maggior parte dei casi (Rilke, Acconci, ad sempio) il monitor è assolutamente uno specchio attraverso il quale fare emergere l’opera, ma, al contrario dello specchio, il monitor è fedele, non capovolge destra e sinistra, è davvero “te”.
“Il monitor come specchio”: è indiscutibile che lavorare con il video diventi una disciplina narcisistica, ma più che autoriflessiva credo sia quasi sempre autoreferenziale.
Questa è una riflessione sul processo del lavoro dell’artista con il video, ma nel caso di Gino De Dominicis, ad esempio, e per la prima volta nei suoi lavori con questo mezzo (vedi quelli fatti con Schum), l’artista non vi appare, nessun narcisismo e nessun rispecchiamento, e questo è naturalmente intenzionale, un confondere le idee, sbalordire rispetto alle attese di chi si aspetti un lavoro più simile a quelli precedenti (Gino De Dominicis vi guarda, Tentativo di volo, Tentativo di produrre quadrati gettando un sasso nell’acqua: quest’ultimo non è il titolo corretto). Prima di arrivare a questo video, come dico nel mio libro, ne abbiamo provati molti altri, tutti assurdi e tutti impregnati di grande e geniale ironia.

[c.g.s] Ma non pensate che, forse, oltre la dimensione narcisista (piuttosto investigata da Rosalind Krauss) 12 vi sia, da un lato, una pratica marcatamente performativa che si precisa in video (il “feedback con se stessi” di cui parla magistralmente Vito Acconci, il lavoro sul soggetto enunciazionale di Taka Ito Iimura, le deformazioni espressive di Arnulf Rainer ecc.) e, dall’altro lato, si tracci un qualche legame strutturale tra “videotape” e “arte concettuale”?

[m.g.b] Qui mi sembra che si stia analizzando il mezzo video e non l’opera prodotta: certo, il mezzo video è questo e quello, e anche molto altro, un contenitore aperto alla creatività singolare di ogni artista, quindi può essere pratica performativa (Abramovic), deformativa (specchiante, Rainer) enunciativa (tautologica, Agnetti) o semplicemente supporto per un “quadro della mente” (Kounellis), per questo ribadisco che l’opera non è il mezzo e il mezzo non è l’opera.
Avrei voluto lavorare anche con Joseph Kosuth e con altri artisti concettuali, ma non è accaduto, solo Vincenzo Agnetti ha fatto con noi un video (il primo rizzato da art/tapes/22) "concettuale" [Documentario N. 2, 1973]
in cui usa numeri invece di parole. D'altronde il video è assolutamente un mezzo duttile e libero. Ad esempio, io sono ora una grande ammiratrice di alcuni videoclip musicali e di alcuni commercials... mi ripeto ma pert me il video è un mezzo e come tale può contenere tutto. Certo che l'uso di questo mezzo, via via che la tecnologia si è fatta più sofisticata, ha sempre di più inciso sul lavoro stesso: un esempio è il lavoro di Bill Viola: non potrebbe che essere realizzato con il video, ma il risultato è comunque la perfezione di un dipinto manierista.

[m.i] Una domanda sui destinatari, sul ruolo spettatoriale: quali erano gli spettatori “ideali” (e non)? Come venivano presentati i videotape presso le gallerie, i musei, le fiere (Art Basel ecc.)?

(mgb) Gli spettatori? Alle varie fiere d’arte, nei rari musei, tutti i fruitori di quegli spazi, visitatori, galleristi, amanti dell’arte; nello studio fiorentino invece il mercoledì sera le porte erano aperte agli studenti universitari, ai rarissimi amanti dell’arte contemporanea.-.
Gli allestimenti all’interno del nostro studio per produrre i video (se non si parli dell’environnement di Daniel Buren che è stato “altro” dalla produzione dei video), non erano mai programmati, se non in casi particolari (Douglas Davis, Allan Kaprow ad esempio), ma “cercati insieme”, “inventati” via via, fuori orario, durante nottate piene di energie e di creatività, buon vino, discussioni e tentativi, fino a trovare esattamente quel punto magico che era già, anche se forse inconsciamente, nella mente dell’artista.
Gli allestimenti delle mostre o fire d’arte? anche in queste occasioni erano molto semplici, uno, due forse tre monitor all’inizio bianco e nero, qualcuno (spesso io stessa o Alberto Pirelli) di noi metteva via le cassette nel registratore. Un po’ più sofisticato forse l’allestimento dello stand che ho condiviso con Leo Castelli, dove vincemmo il premio “nuove tendenze”, ma sempre molto elementare, pulito, scarno come era necessariamente la cultura di allora-
Ma tutto questo è accaduto solo intorno al 1974, un boom di mostre di video arte, tutte insieme (Bruxelles, Parigi, Basilea, Colonia), poi più niente per anni. Per l'Europa si trattava di un "fenomeno" spesso discutibile (arte o non arte?): oltre alle videocassette venivano allestite delle videoinstallazioni bellissime (Nam June Paik, Peter Campus, Dan Graham, Ira Schneider ecc) e l'atmosfera era un po’ quella permeata di curiosità delle prime trasmissioni televisive.


. [c.g.s] Che cosa ha significato l’esperienza della mostra itinerante “Americans in Florence, Europeans in Florence” (Europe-USA 1974)?

[m.g.b] Soprattutto questa mostra ha dimostrato come il supporto NON SIA l’opera, il fatto che contemporaneamente in diversi musei sparsi nel mondo fosse possibile mostrare le stesse opere di artisti (non multipli, ma opere originali) ha sottolineato che è il MESSAGGIO ad essere l’opera (come nella musica, non lo spartito ma la musica che si ascolta) e non il supporto che lo contiene.

[c.g.s] Che cosa pensi del concetto di videotape come “opera unica”, “originale”?

[m.g.b] Con Vito Acconci e con Charlemagne Palestine abbiamo previsto cinque video numerati e firmati (su foto presa dal video) che avessero un valore maggiore delle altre eventuali copie. Forse a suo tempo ne abbiamo vendute una o due, ma questo concetto è assolutamente errato a mio parere: di nuovo si fa del supporto (la cassetta, il DVD o altro) un feticcio, un “oggetto" mercificabile, mentre l'essenza della videoarte è in ciò che si vede, che si percepisce, non che si tocca. La videoarte non é una serie di multipli, e nemmeno di copie.
Il problema del copy right è insolubile: nell'era della masterizzazione è utopistico pensare che certi DVD (o altri supporti) possano essere davvero protetti. È anche per questo che non si dovrebbe dare troppa importanza al video come "oggetto", tra l'altro l'opera realizzata con il mezzo elettronico dovrebbe per sua natura essere visibile soprattutto su larga scala, attraverso la televisione (Gerry Schum aveva fatto la cosa giusta) e quindi, non come un "oggetto" vendibile, il fatto che molti usufruiscano di un'opera d'arte, infine, dovrebbe essere assolutamente una cosa da augurarsi! È il concetto che dovrebbe rinnovarsi, è assurdo continuare a vedere anche nella video arte un "oggetto" da tenere sul tavolo come una scultura.

[c.g.s] Assolutamente, ma non è solo un fatto di copy right. Il problema ne convoca però un altro, quello della dimensione significante dell’opera elettronica, dell’opera a carattere tecnologico. Achille Bonito Oliva dice in modo illuminate che l’artista (l’autore) «ha i suoi tempi» vive, muore, mentre «l’opera gioca sulla durata», ma «la durata è in qualche modo garantita non dal significato, ma dal significante. Il significato è storico, è contingente, viene riassorbito, masticato, eliminato superato (&hellipWinking»; «il significante è proprio la possibilità di fermarsi ancora una volta di fronte a un’opera di fronte alla Gioconda di Leonardo, davanti a questo enigma che in ogni caso rappresenta, l’androgina, il maschile e il femminile secondo i momenti culturali, le mode, le sensibilità del tempo. Ecco l’importanza del significante, è questa capacità di slittare». 13 Il “significante” è la riserva del senso, ciò che rende possibile che esso possa essere ri-attualizzato ciò che fa sì che ci si possa fermare ancora e ancora davanti a un’opera.
E il “significante” è posta in gioco per qualsiasi operazione di restauro, anche per quella semplicemente preservativa, anche per le arti tecnologiche. La pellicola e il nastro magnetico pongono in evidenza come la “materia” di cui si sostanzia l’opera ne definisca la forma (o quantomeno importanti aspetti formali). Detto altrimenti, il supporto presentazionale, ciò che consente la manifestazione espressiva (audiovisiva) - “il significante” - dell’opera (del videotape) è anche materia costitutiva. Ed è propriamente qui che agiscono le pratiche di restauro. Così che per saper “leggere”, interpretare i disturbi del segnale, l’omogeneità segnale-rumore, le lacune, le discontinuità ravvisate, nelle migrazioni da supporto a supporto (1 pollice, 1/2 pollice, U-matic, DVD ecc.) è necessario mettere in campo una serie di competenze che debbono tenere conto della singolarità di ogni opera, di ogni videotape, comportata dall’unicità dell’azione artistica, dal pensiero che vi è implicato e dispiegato, dalle tecniche di esecuzione, ma anche della conoscenza dei materiali “originali” di supporto e di quelli di migrazione, della piattaforma tecnologica d’epoca (le “macchine” stesse sono dunque un documento storico) e del contesto di ricezione spettatoriale.

[m.g.b] Ho già detto che, al di là della scarsa importanza che io do al supporto rispetto all’opera in sé, sono d’accordo che proprio nel supporto stia la possibilità di leggere l’opera e che quindi questo sia di grande importanza, qualunque standard rappresenti, ma non facciamo del “luddismo” né in positivo né in negativo identificando la macchina, il supporto con il soggetto di cui stiamo parlando!

[m.i] Nel 1977 si “conclude” l’avventura di art/tapes/22 con la cessione all’ASAC degli archivi della società e la chiusura della sede di via Ricasoli 22. Oltre ai ricordi e alle emozioni di questa esperienza unica, che cosa resta (o è rintracciabile) oggi dell’esperienza di art/tapes/22, nelle opere degli autori che vi hanno preso parte? “Dopo art/tapes/22”, cosa si può trovare di art/taspes/22 nell’arte contemporanea? L’eredità di art/taspes/22 è stata raccolta e portata avanti?

[m.g.b] Prima di art/tapes/22: Bruce Neuman, Gerry Schum, Nam June Paik, Dan Graham, Campus, Ira Schneider, Wolf Vostell e tanti tanti altri importantissimi lavori. “Dopo”? Credo che siano state realizzate delle magnifiche opere con questo mezzo, mi pregusto già l'esplorazione capillare della produzione contemporanea che sto per affrontare per realizzare la grande rassegna di video arte che stiamo progettando con Valentina Valentini della quale per ora non voglio parlare, anche perché è solo un sogno un po’ utopistico data la situazione attuale e il monopolio dei fondi destinati alla cultura e quindi alle precedenze destinate dai curatori dei grandi eventi nei musei.

[c.g.s] Pensi che le cause che hanno "motivato" e indotto la cessione del corpus art/tapes/22 all’ASAC siano ancora presenti nel sistema dell’arte contemporanea?

[m.g.b] Si è trattato di una ideologia molto legata alla situazione storico-etico-politica di quegli anni (io la penso ancora cosìWinking che privilegiava assolutamente l'importanza del lavoro dell'artista e anche della produzione, quindi il non spicciolare un percorso di vita, di entusiasmo, di lavoro comune, nel caso di art/tapes/22, mantenendo "insieme" un corpus che nella sua specifica diversità rimane comunque un tutt'unico, un'importante parte di storia dell'arte scritta dagli artisti che hanno lavorato con me, piuttosto che privilegiare una visione speculativa che non abbiamo nemmeno mai preso in considerazione. Io e Giancarlo, mio marito, non potevamo più sostenere in prima persona l’onere immenso della produzione dei video che era stata tutta e solo sulle nostre spalle: le strutture fiorentine sono rimaste sorde ad ogni appello, non avendo forse compreso l’importanza del lavoro svolto e in fieri, alla Biennale invece c’erano persone come Carlo Ripa di Meana, Germano Celant, Vittorio Gregotti, Wladimiro Dorigo, e Ronconi stesso che era entusiasta dei video di art/tapes/22, tutti amici di grandi qualità intellettuali e lungimiranti!

[m.i] Dal tuo punto di osservazione attuale, quali percorsi sembra intraprendere la videoarte contemporanea?

[m.g.b] Un percorso frattalico libero, si va incontro ad una nuova estetica più lieve e orizzontale, ed il video con la sua velocità e la sua legittima divulgazione attraverso il web sarà una scorciatoia ormai indispensabile per esprimersi, in molti settori della nuova cultura.


[c.g.s] Ma art/tapes/22 è ancora nel futuro. Il restauro preservativo del corpus art/tapes/22 ha consentito di rendere nuovamente “visibili” i videotape limitando l’evoluzione degenerativa della “materia”, del nastro magnetico, dei master e/o delle copie dei videotape che restituendo nuovamente la loro trasmissibilità ne ha definito non solo l’aspetto memoriale (in quanto documenti storici), ma anche ne ha riattualizzata l’esistenza stessa (in quanto opere).
Che cosa è possibile aggiungere a questa nuova attualità? Che cosa è possibile vedere o ri-vedere dell’arte contemporanea attraverso questi videotape d’artista?

[m.g.b] La storia di una grande, libera avventura le cui tracce sono con grande evidenza delle bellissime opere d’arte.